martedì 27 luglio 2010

8 agosto 2010 - XIX Domenica del Tempo Ordinario

Nel cuore dell'estate, Gesù ci rassicura: anche se siamo un piccolo gregge di pecore sperdute ed impaurite, al Padre è piaciuto darci il suo Regno. Fidandoci di Gesù pastore, evitando di seguire i tanti finti pastori che ci affittano il pascolo e si disinteressano di noi, seguiamo il vero pastore delle pecore, quello buono che, solo, ci può condurre alla pienezza della vita.
Seguire lui è la più bella avventura della nostra vita, l'unica cosa per cui valga davvero la pena di investire. Lasciamo stare le ansie del possesso (economico, affettivo, relazionale), ragioniamo bene prima di investire energie e sogni in cose che non possono colmare il cuore.
Lo possiamo constatare ogni giorno nella nostra tiepida vita di cercatori di Dio: uomini e donne inseguire sogni, arrampicarsi su pareti verticali, prendersi ceffoni sonanti pur di conquistare un obiettivo di lavoro, di denaro, di relazione. Salvo poi, passato l'entusiasmo e l'euforia, restare con l'amaro in bocca: con il cuore che reclama ancora emozioni, passione, scoperte.
Come quando si va in montagna, spesso un colle nasconde un'altra salita, un'altra vetta.
No, siamo onesti, non è affatto semplice colmare l'inquietudine che abita nei nostri cuori.
State pronti, ammonisce Gesù. Pronti a viaggiare, pronti a mettere in discussione ogni risultato, ogni certezza, tanto più se derivano dal bisogno di fede e di religiosità: perché se abbiamo capito che il nostro cuore è fatto per l'infinito, e vogliamo cercare l’infinito, allora dobbiamo essere pronti a cercare continuamente, all'infinito.
È il salutare atteggiamento del discepolo, la consapevolezza del "già e non ancora".
Già conosco Dio, eppure non lo possiedo ancora. Già ho vissuto una splendida esperienza affettiva, eppure so che nessun amore colma il mio cuore definitivamente. Già ho scoperto, alla luce del Vangelo, quanta grazia e luce interiore ricolmano il mio cuore, ma ancora vivo momenti di sconforto e di buio. Già ho capito chi sono, ma ancora non so chi sarò.
Una tensione sana, bella, che ci conduce all'essenziale, che ci stacca dalla pesantezza della quotidianità, che ci restituisce al realismo. State pronti, ci chiede il Maestro. E noi vegliamo nella notte. Quanta fede ci chiedi, Signore!
Come Israele, anche noi siamo chiamati ad uscire dalla schiavitù, da ogni schiavitù, per imparare, nel deserto, a fidarci di Dio. Schiavi dell'idea che abbiamo di noi stessi, schiavi e preoccupati dell'immagine che dobbiamo restituire agli altri, schiavi dei finti bisogni che la pubblicità ci suscita, possiamo riscoprire, alla luce della parola, che o l'uomo è cercatore o non lo è, o l'uomo è mendicante o non lo è. O l'uomo è in cammino interiore o non lo è. Che la vita, che ogni vita, è progressiva liberazione interiore. Quanta fede ci chiedi, Signore!
Anche noi siamo chiamati ad essere come Abramo. Egli ascolta la voce interiore. Non è un giovane preso da deliri mistici: è un uomo realizzato, non travolto da impetuose passioni. Egli è l'uomo provato dalla vita, disilluso e che – pure – sente un appello irrefrenabile all'interiorità. Egli va, ascolta il suo cuore; va verso se stesso. Un folle Abramo che lascerà ogni certezza e ruolo sociale per seguire un istinto interiore, per ritrovare se stesso! E questo suo gesto sarà immensamente fecondo: egli è il padre di tutti i cercatori di Dio.
Andiamo anche noi verso noi stessi, fratelli e sorelle, scopriamoci viandanti, sul serio. Anche se pensiamo di avere vissuto a sufficienza, o troppo sofferto, o fatto le nostre scelte giuste. Siamo tutti straordinariamente liberi, resi capaci di iniziare nuovi percorsi anche quando tutto sembra deciso, giusto o sbagliato, comunque irremovibile. Andiamo verso noi stessi!
La nostra vita, allora, si trasformerà in una inquieta attesa: l'attesa del ritorno, l'attesa dell'incontro del padrone che torna dalle nozze. Attesa, sorella. Attesa, fratello. Attesa: la mia vita, la tua vita, la nostra vita, sarà solo attesa: di un senso, del superamento del nostro dolore, della chiave per capire la nostra vita, di una persona da amare, di un figlio da stringere e baciare, di un mondo migliore, della luce infinita che illumini le nostre paure; sarà attesa di Dio. Attesa consapevole.
L'uomo è l'unico essere vivente capace di attendere, di vegliare, di insistere, di credere.
Nella notte, spesso, nel lungo e corposo silenzio della notte, sentiamo crescere la nostra fede, il nostro cuore abbandonarsi, e capiamo cosa ci è essenziale. Nella notte, come le sentinelle che aspettano l'aurora, diventiamo più credenti, più discepoli. Quando le ginocchia vacillano, quando la fatica è tanta, quando ci sembra di non farcela ad attendere, quando la disperazione fa pressione alla porta del cuore, possiamo guardare ai testimoni, guardare ai padri della fede, ai tanti, tantissimi che, come noi, hanno creduto nella notte e, infine, visto la luce.
La fede è questo misterioso “già e non ancora”, questo silenzio assordante, questa notte luminosa.
Vegliamo, dunque, fratelli miei! Amen.

Nessun commento: