martedì 27 luglio 2010

15 agosto 2010 - Assunzione della Beata Vergine Maria

Quest'anno abbiamo la gioia di celebrare, di domenica, la festa dell'Assunzione di Maria, festa che ci richiama all'opera di Dio in Maria di Nazareth, discepola del Signore. Non vi nascondo, però, un sottile disagio a parlare di lei, perché il più grande torto che possiamo fare a Maria è di metterla in una nicchia e incoronarla con una corona d'oro! Comico, vero? Dio ci dona una discepola esemplare, una donna (in un mondo di maschilisti Dio pone una donna a modello!) che, per prima, ha scoperto il volto del Dio incarnato, e noi subito a metterla sul piedistallo, santa stratosferica da invocare nei momenti di sofferenza. Per favore, no! Maria ci è donata come sorella nella fede, come discepola del Signore, come madre dei discepoli.
Il cuore del suo cammino è narrato da Luca, in quella corsa frenetica, tumultuosa, che Maria compie all'indomani dell'annuncio dell'angelo. Non gli aveva forse detto, l'angelo, della gravidanza della sua vecchia cugina? Maria parte volentieri da Nazareth, ha bisogno di riflettere, di capire. Ha paura di essersi sbagliata, di avere avuto un colpo di sole.
Possibile? Il Messia verrà? Possibile? Lei è stata scelta come madre? Maria sale a sud, due giorni di viaggio, pensieri che affollano la mente. Forse è in compagnia di Giuseppe, non era opportuno che le donne viaggiassero da sole. In una piccola parrocchia, dedicata alla Visitazione, un simpatico pittore dell'ottocento ha rappresentato l'incontro fra le due donne. In secondo piano, dell'affresco della volta, Zaccaria e Giuseppe si fanno un cenno con la mano, un po' protagonisti marginali di questo affare misterioso di donne che è la maternità, mistero che estranea un po' noi uomini.
L'incontro tra la matura Elisabetta e l'adolescente Maria è un'apoteosi, un fuoco d'artificio. Solo loro sanno, solo loro capiscono, i servi e i famigliari guardano attoniti queste due donne che ridono e si abbracciano e piangono di gioia. Elisabetta solleva in un abbraccio la piccola Maria: 'Come sei cresciuta! Che bella che sei!'; poi la posa, la guarda scuotendo la testa: “Come hai fatto a credere, Maria?”. Sì, Maria, anche noi lo ripetiamo, scuotendo la testa: come hai potuto credere che davvero Dio diventasse sguardo e sudore e calore nel tuo ventre? Come hai fatto a credere che - sul serio - Dio avesse bisogno di te, e di noi, per salvare l'umanità? Come hai fatto a credere che il tuo acerbo ventre contenesse l'Assoluto? Beata te che hai creduto Maria. Beati noi, fragili discepoli, che sentiamo l'orgoglio riempirci di lacrime gli occhi e la nostalgia della santità mozzarci il fiato: tu sei figlia della nostra umanità, tu sei il riscatto delle nostre tiepidezze. E Maria canta e danza. Allora è tutto vero, ciò che ha visto era davvero il messaggero di Dio, allora tutte le stanche e impolverate profezie ascoltate allo Shabbat in sinagoga, si stavano realizzando. Dio non si è stancato del suo popolo, Dio non l'ha abbandonato, non ci ha abbandonato, Dio è presente. La danza finisce in un canto, lo stupore della logica di Dio che prende una quindicenne illetterata, figlia povera di una terra occupata, in un tempo senza internet e networks, per salvare l'umanità.
Ecco, fratelli miei, questa è la festa dell'Assunzione, la storia di una discepola che ha creduto davvero nella Parola del suo Dio, che insegna a noi, tiepidi credenti, l'ardire di Dio, la follia dell'Assoluto. Questa donna, noi crediamo, dopo la lunga esperienza di una fede abitata dal Mistero, è andata, prima tra tutti i credenti, al Dio che l'aveva chiamata. Non poteva conoscere la corruzione della morte colei che aveva dato alla luce l'autore della vita. Siamo in buona compagnia, fratelli! Lasciamoci andare, allora: grandi cose ha fatto Dio in Maria; grandi cose può fare anche in noi, solo se lo lasciamo fare... Amen!

8 agosto 2010 - XIX Domenica del Tempo Ordinario

Nel cuore dell'estate, Gesù ci rassicura: anche se siamo un piccolo gregge di pecore sperdute ed impaurite, al Padre è piaciuto darci il suo Regno. Fidandoci di Gesù pastore, evitando di seguire i tanti finti pastori che ci affittano il pascolo e si disinteressano di noi, seguiamo il vero pastore delle pecore, quello buono che, solo, ci può condurre alla pienezza della vita.
Seguire lui è la più bella avventura della nostra vita, l'unica cosa per cui valga davvero la pena di investire. Lasciamo stare le ansie del possesso (economico, affettivo, relazionale), ragioniamo bene prima di investire energie e sogni in cose che non possono colmare il cuore.
Lo possiamo constatare ogni giorno nella nostra tiepida vita di cercatori di Dio: uomini e donne inseguire sogni, arrampicarsi su pareti verticali, prendersi ceffoni sonanti pur di conquistare un obiettivo di lavoro, di denaro, di relazione. Salvo poi, passato l'entusiasmo e l'euforia, restare con l'amaro in bocca: con il cuore che reclama ancora emozioni, passione, scoperte.
Come quando si va in montagna, spesso un colle nasconde un'altra salita, un'altra vetta.
No, siamo onesti, non è affatto semplice colmare l'inquietudine che abita nei nostri cuori.
State pronti, ammonisce Gesù. Pronti a viaggiare, pronti a mettere in discussione ogni risultato, ogni certezza, tanto più se derivano dal bisogno di fede e di religiosità: perché se abbiamo capito che il nostro cuore è fatto per l'infinito, e vogliamo cercare l’infinito, allora dobbiamo essere pronti a cercare continuamente, all'infinito.
È il salutare atteggiamento del discepolo, la consapevolezza del "già e non ancora".
Già conosco Dio, eppure non lo possiedo ancora. Già ho vissuto una splendida esperienza affettiva, eppure so che nessun amore colma il mio cuore definitivamente. Già ho scoperto, alla luce del Vangelo, quanta grazia e luce interiore ricolmano il mio cuore, ma ancora vivo momenti di sconforto e di buio. Già ho capito chi sono, ma ancora non so chi sarò.
Una tensione sana, bella, che ci conduce all'essenziale, che ci stacca dalla pesantezza della quotidianità, che ci restituisce al realismo. State pronti, ci chiede il Maestro. E noi vegliamo nella notte. Quanta fede ci chiedi, Signore!
Come Israele, anche noi siamo chiamati ad uscire dalla schiavitù, da ogni schiavitù, per imparare, nel deserto, a fidarci di Dio. Schiavi dell'idea che abbiamo di noi stessi, schiavi e preoccupati dell'immagine che dobbiamo restituire agli altri, schiavi dei finti bisogni che la pubblicità ci suscita, possiamo riscoprire, alla luce della parola, che o l'uomo è cercatore o non lo è, o l'uomo è mendicante o non lo è. O l'uomo è in cammino interiore o non lo è. Che la vita, che ogni vita, è progressiva liberazione interiore. Quanta fede ci chiedi, Signore!
Anche noi siamo chiamati ad essere come Abramo. Egli ascolta la voce interiore. Non è un giovane preso da deliri mistici: è un uomo realizzato, non travolto da impetuose passioni. Egli è l'uomo provato dalla vita, disilluso e che – pure – sente un appello irrefrenabile all'interiorità. Egli va, ascolta il suo cuore; va verso se stesso. Un folle Abramo che lascerà ogni certezza e ruolo sociale per seguire un istinto interiore, per ritrovare se stesso! E questo suo gesto sarà immensamente fecondo: egli è il padre di tutti i cercatori di Dio.
Andiamo anche noi verso noi stessi, fratelli e sorelle, scopriamoci viandanti, sul serio. Anche se pensiamo di avere vissuto a sufficienza, o troppo sofferto, o fatto le nostre scelte giuste. Siamo tutti straordinariamente liberi, resi capaci di iniziare nuovi percorsi anche quando tutto sembra deciso, giusto o sbagliato, comunque irremovibile. Andiamo verso noi stessi!
La nostra vita, allora, si trasformerà in una inquieta attesa: l'attesa del ritorno, l'attesa dell'incontro del padrone che torna dalle nozze. Attesa, sorella. Attesa, fratello. Attesa: la mia vita, la tua vita, la nostra vita, sarà solo attesa: di un senso, del superamento del nostro dolore, della chiave per capire la nostra vita, di una persona da amare, di un figlio da stringere e baciare, di un mondo migliore, della luce infinita che illumini le nostre paure; sarà attesa di Dio. Attesa consapevole.
L'uomo è l'unico essere vivente capace di attendere, di vegliare, di insistere, di credere.
Nella notte, spesso, nel lungo e corposo silenzio della notte, sentiamo crescere la nostra fede, il nostro cuore abbandonarsi, e capiamo cosa ci è essenziale. Nella notte, come le sentinelle che aspettano l'aurora, diventiamo più credenti, più discepoli. Quando le ginocchia vacillano, quando la fatica è tanta, quando ci sembra di non farcela ad attendere, quando la disperazione fa pressione alla porta del cuore, possiamo guardare ai testimoni, guardare ai padri della fede, ai tanti, tantissimi che, come noi, hanno creduto nella notte e, infine, visto la luce.
La fede è questo misterioso “già e non ancora”, questo silenzio assordante, questa notte luminosa.
Vegliamo, dunque, fratelli miei! Amen.

1 agosto 2010 - XVIII Domenica del Tempo Ordinario

Domenica scorsa ci siamo inteneriti e consolati con la riflessione sulla preghiera, quella precedente con la luminosa pagina di Marta e Maria e oggi ci tocca parlare di beghe ereditarie! La Parola di oggi infatti è incarnata nella pesantezza della quotidianità, nella concretezza delle scelte e delle relazioni, nel difficile rapporto con le cose e le fortune.
Alzi la mano chi non ha mai avuto nella sua vita almeno una piccola controversia per questioni di denaro.
È vero, fratelli miei, quante amicizie sono state spazzate via per questioni di soldi, quanti legami di parentela si sono trasformati in odio viscerale per questioni ereditarie, per qualche metro quadro in più di casa, di terra... D'altronde, siamo onesti: se gli affetti, le amicizie, le relazioni di parentela non si concretizzano in atteggiamenti di equità e giustizia, se non passano la prova della solidarietà, diventa davvero difficile capire come si concretizzi il bene che diciamo di volerci.
Ovvio, siamo tutti persone equilibrate e oneste, e quello che pretendiamo è sempre per una questione di principio. Anche il tale della folla – fa un po’ tenerezza questo poveraccio che, non sapendo più cosa fare, chiede a Gesù di intervenire personalmente presso il fratello perché gli riconosca la sua parte di eredità – probabilmente ha ragione: ha subito un torto e vorrebbe essere risarcito.
Ma Gesù sorride e risponde «no, grazie». E non solo a lui, ma a tutti noi. A ragion veduta.
No, grazie: perché possiamo benissimo capire da noi stessi cosa è giusto fare.
No, grazie: Dio ci ha creati sufficientemente intelligenti per risolvere ogni questione pratica.
No, grazie: smettiamola di chiedere a Dio di fare ciò che potremmo fare benissimo da soli.
No, grazie: Dio ci tratta da adulti, evitiamo di considerarlo come un preside che ci risolve i guai.
No, grazie: Dio non ci allaccia le scarpe, né ci soffia il naso come con i bambini piccoli, né ci risolve i problemi che riusciamo a risolvere benissimo da noi stessi.
Il mondo ha una sua armonia, una sua logica, delle leggi che – in ultima analisi – dipendono da Dio, ma che funzionano da sé. Dio non si alza al mattino per dare un giro di manovella perché il mondo si metta in moto, lo ha creato pieno di intelligenza e di bellezza, a noi di scoprirne le leggi intrinseche.
L'atteggiamento della Bibbia, a questo proposito, è adulto e maturo: riconosce in Dio l'origine di ogni cosa, ma lascia all'uomo la capacità di gestire il creato. Non occorre sfogliare la Scrittura per sapere cosa è bene per l'economia, la giustizia, la pace, la solidarietà; è sufficiente ascoltare il nostro cuore, la nostra coscienza illuminata.
Gesù sa che dietro la domanda di quel tale c'è una questione di soldi e ne approfitta per fare una riflessione sulla ricchezza.
A parole, siamo sempre tutti liberi e puri, siamo tutti Francescani doc!
Proviamo tutti un connaturale fastidio nei confronti del denaro: soprattutto quando è degli altri!
Lo consideriamo qualcosa di pericoloso, di sporco, di ambiguo. Una persona ricca è sempre guardata con sospetto, con un certo imbarazzo.
Gesù, paradossalmente, è molto libero in proposito: non dice che la ricchezza è una cosa sporca. Dice solo che è pericolosa. Guardate il pover'uomo della parabola: un gran lavoratore, non ci viene descritto come un disonesto, né come un avido, anzi, fa tenerezza la sua preoccupazione di far fruttare bene i suoi guadagni per poi goderseli in pace... La sua morte non è una punizione, ma un evento possibile, sempre nell'ordine delle autonomie delle cose di cui sopra. Chissà: forse troppo stress, troppo lavoro, troppe sigarette sono all'origine della sua morte improvvisa, non certo l'azione di Dio.
Gesù ci ammonisce: la ricchezza promette ciò che non può mantenere, ci illude che possedere servirà a colmare il nostro cuore. Come leggiamo nell'acida riflessione del Qoelet, anche noi constatiamo come sia inutile affannarsi ad accumulare ricchezze, di cui poi altri godranno.
Se davvero abbiamo incontrato Cristo, accogliendo l'invito di Paolo, l'ordine delle nostre priorità ormai è profondamente cambiato. Il mondo suscita bisogni fasulli per colmare il grido di assoluto che scaturisce dal nostro cuore e che Dio solo può colmare.
Un po' di essenzialità, allora, ci può aiutare a ricordarci che siamo pellegrini, che la ricchezza ci può ingannare, e se qualcuno ha avuto dalla Provvidenza un po' di fortuna economica, gli serva come occasione per accumulare tesori in cielo aiutando i fratelli più poveri.
La Parola di oggi ci propone un grande esame di coscienza collettivo: non dobbiamo farci inutili sensi di colpa, ma dobbiamo essere essenziali nel gestire le cose della terra; assolutamente corretti nei confronti del denaro della comunità, e ancor più di quel denaro che è a servizio dell'annuncio del Regno.
Andiamo all'essenziale, fratelli, come il Signore ci chiede; lasciamo che siano le cose importanti a guidare la nostra vita, le nostre scelte. Perché non di soldi, ma di ben altre ricchezze ha bisogno il nostro cuore: di beni immensi, di tesori infiniti. Della impagabile tenerezza di Dio. Amen.

domenica 18 luglio 2010

25 Luglio 2010 - XVII Domenica del Tempo Ordinario

Come Maria di Betania possiamo fare l'esperienza splendida di sederci e metterci in ascolto del Maestro che parla. Il cuore, allora, scopre di sé una nuova dimensione, fino ad allora sconosciuta, un percorso che – stupore! – lo mette in contatto con Dio.
Niente "vocine" o autosuggestioni, credetemi, solo la scoperta dell'oceano su cui passeggiamo senza saperlo.
La dimensione dell'interiorità, del silenzio, della scoperta di Dio passa attraverso l'esperienza della preghiera, una delle esperienze universali dell'umanità.
Ma, ahimè, il cuore dell'uomo tende a possedere, a manipolare, a schematizzare e anche la splendida esperienza della preghiera rischia di essere svilita e sbiadita, ridotta a noiosa ripetizione, a dovere da assolvere, a estremo ricorso in caso di difficoltà.
La Parola di Dio di oggi ci aiuta a capire cos'è la preghiera secondo Dio.
Prima di tutto la preghiera è amicizia. La pagina della Genesi di oggi è un capolavoro che ci svela il volto di Dio: Sodoma e Gomorra sono due città violente e depravate e Dio decide di distruggerle, abbandonandole al proprio destino. Dio è dubbioso: ormai il rapporto di amicizia con Abramo si è consolidato e decide di parlargli del proprio progetto. Abramo ha un tuffo nel cuore: a Sodoma abita Lot, suo nipote, e inizia una serrata contrattazione. Alla fine la spunta Abramo: se Dio troverà a Sodoma anche solo cinque giusti salverà l'intera città. Importanza della preghiera amichevole! La preghiera è infatti un colloquio intimo, uno scambio di opinioni, una reciproca intesa. Non una lista della spesa, non un tentativo di corruzione, non una litania portafortuna.
Noi concepiamo la preghiera come una serie di formule bene auguranti, ma la preghiera è fatta anzitutto di ascolto, l'ascolto di Dio, e di intercessione, intercessione per il mondo, non per i miei bisogni.
La preghiera è fiducia. Gesù ci svela il volto del Padre: è a lui che rivolgiamo la preghiera. Non a un despota capriccioso, non a un potente da convincere. Siamo diventati figli, ci ha detto san Paolo, Dio ci tratta come tratta il suo figlio beneamato. Un buon Padre sa di cosa ha bisogno il proprio figlio, non lo lascia penare. Molte delle nostre preghiere restano inascoltate perché sbagliano indirizzo del destinatario: non si rivolgono a un padre ma a un patrigno o a un antipatico tutore a cui chiedere qualcosa che, pensiamo, in realtà ci è dovuto.
La splendida e unica preghiera che Gesù ci ha lasciato dovrebbe essere la preghiera sempre presente sulle nostre labbra, a cui attingere; preghiera piena di buon senso e di concretezza, di affetto e di gioia, di fiducia e di realismo, ci permette di rimettere al centro la nostra giornata.
La preghiera deve inoltre essere costante.
Come la vedova della parabola il Signore ci invita ad insistere. Gesù non entra nel merito: forse la questione sollevata dalla vedova è un litigio tra vicini e il giudice ha ben altro di cui occuparsi. Eppure, alla fine, cede. Gesù è sicuro di ciò che dice: se chiediamo otteniamo, se ci affidiamo siamo accolti in un caldo abbraccio dal Padre.
Ma, cari fratelli, è a un Padre che ci rivolgiamo con costanza?
Leggendo questa pagina del vangelo mi viene da sorridere: nella mia vita ho pregato molto, ma mi lamento di non essere mai stato esaudito. Perché?
Già sant'Agostino si poneva questa domanda e rispondeva mirabilmente: non sei esaudito perché chiedi male, senza l'insistenza dell'amico importuno, perché ciò che chiedi non è il tuo vero bene (ora, guardandomi indietro, vedendo i problemi sotto una luce completamente diversa, devo dargli ragione!), perché Dio aspetta ad esaudirti per lasciare crescere in te il desiderio di ciò che chiedi.
E allora mi correggo: con la mia preghiera non ho mai ottenuto ciò che chiedevo, ma sempre ciò che desideravo profondamente. Per questo dobbiamo imparare a pregare.
Si, perché la preghiera prima di tutto ha bisogno di noi: così come siamo, devoti o atei, santi o peccatori. Ma deve essere un "noi" vero, autentico, non finto, di facciata. La preghiera ha bisogno anche di un tempo: cinque minuti – tanto per cominciare – tempo in cui, spegnendo il cellulare e isolandoci, riusciamo forse a non essere proprio storditi o distratti. La preghiera ha bisogno anche di un luogo: l’autobus, la metro, vanno bene al pari della nostra stanza o della strada percorsa in solitario nella pausa pranzo. La preghiera ha bisogno di una parola da dire: le persone che incontriamo, le cose che ci angustiano, un "grazie" detto a Dio. La preghiera ha bisogno, quando possibile, di una parola da ascoltare: meglio se il Vangelo del giorno, da leggere con calma e assaporare, perché la preghiera ha bisogno di una Parola da vivere: e quando riprenderemo la nostra attività, dopo questa breve parentesi, ci accorgeremo che qualcosa è cambiato.
Venga lo Spirito promesso dal Signore, fratelli e sorelle; lo Spirito che ci permette di vedere con uno sguardo diverso anche le cose che ci sembrano indispensabili alla nostra felicità, capendo, infine, che ciò che riteniamo un ostacolo insuperabile non è poi così importante risolverlo e – forse – non è neppure un ostacolo. Perché, nella preghiera, scopriremo che nulla ci può impedire di dire con verità: “Padre”. Amen.

martedì 13 luglio 2010

18 Luglio 2010 - XVI Domenica del Tempo Ordinario

È facile immaginare la scena: Gesù, verso la fine del pomeriggio, quando il caldo di Gerusalemme cede il passo al vento, scendeva la valle del Cedron e risaliva il monte degli Ulivi, per superarlo e raggiungere il piccolo villaggio di Betania.
Chissà quando aveva conosciuto le sorelle e Lazzaro, forse suoi coetanei...
Per Gesù Betania rappresentava una pausa di normalità, una sosta, un refrigerio. Lasciati indietro anche gli apostoli, forse Gesù ritrovava in quella casa di campagna gli odori e le luci della sua piccola Nazareth.
Forse a Betania, davanti ad una focaccia cotta, Gesù dimenticava la tensione che provava nella Gerusalemme che uccide i profeti, abbandonava il dolore sordo che gli stava crescendo nel cuore vedendo la sua missione duramente contrastata.
A Betania Gesù poteva parlare liberamente, sentirsi accolto, svestiva il ruolo del Rabbì, abbandonava i panni dell'accusato per ritrovare, per qualche momento, il piacere dell'amicizia e della complicità.
Mi commuove alle lacrime vedere Dio intessere una relazione, che chiede ascolto, che ama sedersi con semplicità intorno ad un tavolo e ridere e scherzare.
Se potessimo, di quando in quando, invitare Dio e ascoltarlo, preparare per lui, come Abramo, un buon pasto e dello yogurt fresco! Diventassimo capaci, ogni tanto, di ascoltare Dio e il suo desiderio di salvezza, ascoltare le sue fatiche e il suo dolore nel vedere l'umanità travolta dalla violenza e dal limite, dirgli che può contare su di noi per realizzare quell’altro mondo, quello che ha nel cuore...
Facessimo diventare Betania la nostra vita!
Maria e Marta rappresentano le due dimensioni della vita interiore: la preghiera e l'azione.
Maria ascolta con attenzione le parole del Maestro, le manda a memoria, se ne abbevera. Come molti, ancora oggi, pende dalle labbra del Signore, aspetta che egli parli al suo cuore.
All'origine di ogni fede, il cuore di ogni esperienza religiosa è e resta l'incontro intimo e misterioso con la bellezza di Dio. Dio che solo intravediamo attraverso le fitte nebbie del nostro limite ma di cui, pure, possiamo temporaneamente fare cristallina esperienza. Rimettiamo la preghiera e il silenzio nel cuore della nostra giornata, come sorgente di serenità e di gioia.
Marta realizza la beatitudine dell'accoglienza, la concretezza dell'amore e dell'ospitalità. Anche lei sa che l'ascolto del Maestro è l'origine di ogni incontro, ma sa anche che se questo incontro non cambia la vita, resta sterile e inconcludente.
Marta nutre il Cristo che Maria adora.
Non esiste una preghiera autentica che non sfoci nel servizio.
È sterile una carità che non inizi e non termini nella contemplazione del mistero di Dio.
Restare ancorati a Cristo, ascoltare la sua parola, farlo diventare ospite fisso della nostra vita suscita e produce in noi una profondità che nulla può travolgere.
Marta e Maria, pur restando gravemente turbate dalle morte di Lazzaro loro fratello, sapranno, comunque, rivolgersi ancora, disperatamente, al Rabbì che scioglierà le loro angosce.
Paolo, riflettendo sul dolore che sta caratterizzando la sua vita di apostolo, invece di disperarsi offre il suo dolore a compimento del dolore di Cristo. Nella logica del Vangelo, anche la notte e la sconfitta, se unite a Cristo, Signore della notte e della sconfitta, possono trasformarsi in gesto d'amore.
Siamo ormai nel cuore dell'estate: in ferie – i più fortunati – o nelle città arroventate; lasciamo entrare, fratelli cari, la freschezza dello Spirito accogliendo Cristo, ovunque ci troviamo. Amen.

mercoledì 7 luglio 2010

11 Luglio 2010 - XV Domenica del Tempo Ordinario

È scritta nel cuore la legge di Dio: è la scoperta straordinaria fatta da un popolo di nomadi, fuggiti dalla schiavitù. Un popolo guidato da un liberatore liberato, un ebreo cresciuto alla corte del Faraone che nel deserto scoprì che Dio c'era ed era immensamente diverso dalle divinità ad uso dei sacerdoti e dei potenti della terra d'Egitto. Il Dio dei Padri, il Dio di Mosè si era rivelato: il suo nome era: "Io ci sono". E Dio c’è veramente, non è uno scherzo! E per scoprire il suo vero volto, Dio ha svelato il vero volto degli uomini.
Dio c'è e parla al cuore degli uomini. La sua legge è scritta nel profondo di ciascuno di noi. Il problema è che frequentiamo poco il nostro “dentro”; che evitiamo di avvicinarci al nostro cuore; che fatichiamo a scavare.
Oppure che confondiamo il nostro “dentro” con le nostre capacità intellettuali, con la conoscenza, o con l'esperienza mistica o con chissà cos’altro ancora. Come il dotto dottore della legge che pone al falegname diventato Rabbì una delle tipiche questioni teologico-morali dell'epoca: qual è il primo fra i 613 comandamenti? A tante erano state gonfiate le scarne e asciutte dieci parole che Dio diede a Mosè sul monte nel deserto. Domanda semplice, esigenza reale: saper distinguere il centro dalla periferia, l'essenziale dal relativo. Opera, questa, in cui gli ebrei eccellono e che - ahimè - i cristiani stanno dimenticando a causa della pigrizia mentale e di una sconcertante superficialità mediatica. Gesù sa che il dottore sa. E lo invita, con rispetto e ironia, a far sfoggio della propria cultura. La sua risposta è esatta, forte, essenziale, presa dalla Parola di Dio, conclusione di un lungo dibattito fra i rabbini dell'epoca. Il primo e il secondo tra i comandi sono: ama. Ama Dio come riesci, esplorando l'ampiezza del tuo limite. Amalo pensandolo ed emozionandoti, amalo perché sei amato. E poi scopriti amato per poter amare gli altri, che da avversari divengono fratelli. Bene: risposta splendida, un applauso. Cioè? Il dottore è sconcertato. Sa, e sa di sapere; e Gesù gli conferma il suo sapere. Sa, ma non ama, sa ma non sa che farsene del sapere, non ha sapore il suo sapere. Tentenna, ondeggia, poi replica: chi devo amare? Domanda arguta, ovvio. Molti Rabbì sostengono che bisogna amare il povero, l'orfano e la vedova, pupilla di Dio. O che bisogna amare tutti. Tutti coloro che appartengono al popolo di Israele.
Gesù sorride e si guarda nel cuore, là dove Dio abita. E in lui Dio è. Non è presente, è sé. Il racconto della parabola del samaritano spiazza tutti. Un tale viene rapinato e ferito, l'unico che si occupa di lui è uno straniero, un extracomunitario, uno che non tira diritto. Altri due scendono dalla capitale, bazzicano il Tempio, uno è prete e l'altro un cantore/lettore. Tirano diritto e fanno bene. Che ne sanno chi è quel tale e cosa gli è successo? E se fosse un regolamento fra bande? E se avesse l'Aids? E se i briganti tornassero? Essi hanno Dio nel cuore, sulle labbra, fanno discorsi sensati. Gesù non li biasima, né li condanna: sono figli del loro tempo. E del loro Tempio.
Il prossimo è il samaritano. E Gesù conclude: tu di chi vuoi essere prossimo? A chi vuoi avvicinarti? Soccorsi e samaritani, siamo stati pestati a sangue. Tutti. La vita è così, più o meno faticosa o rigida o dolorosa, ma tutti prima o poi prendiamo qualche bastonata. I cristiani sono coloro che sono stati soccorsi da Cristo, buon samaritano, che ha versato sulle loro piaghe il vino della consolazione e l'olio della speranza e si sono visti portare alla locanda che è la Chiesa. La Chiesa, come canta la comunità di Colossi, segue il buon samaritano e lo imita, lo considera il Capo, cioè la testa, e il principale e cerca di imitarlo.
Animo dunque, fratelli discepoli del Nazareno, convalescenti della vita: se avete sperimentato la tenerezza del Signore e la sua consolazione, siete resi capaci di consolazione, di leggere la legge nel cuore, di passare dalla norma(lità) all'eccezione, dalla testa al cuore. Allora saprete vedere nel volto del fratello il vostro volto, il volto di Cristo. Amen.

lunedì 5 luglio 2010

4 Luglio 2010 - XIV Domenica del Tempo Ordinario

Dio ha un sogno: svelare ad ogni uomo il tesoro nascosto nel campo, far scoprire ad ogni persona la propria dignità, il proprio carisma da mettere a servizio del Regno, manifestarsi ad ognuno come il Dio della misericordia e della consolazione. Dio non vuole salvare il mondo senza di noi, non ci tratta come burattini, vuole, desidera, chiede al nuovo Israele, ai settantadue discepoli protagonisti del Vangelo di oggi, a noi, di diventare suoi discepoli, narratori di Dio. Il Signore ci chiede di costruire la Chiesa senza fanatismi, senza scorciatoie o nostalgie, cercando una piena e matura umanità.
Dovrebbe essere una cosa chiara per tutti, ma così non è.
Quando si parla di "Chiesa", spontaneamente la stragrande maggioranza di noi pensa al proprio parroco, o al Papa, o ai Vescovi o più in generale ai preti. Questa distinzione tra cristiani di prima (il clero) e cristiani di seconda classe (i fedeli) è durissima a morire e non è bastato un Concilio per farci entrare nella corretta prospettiva biblica: ogni discepolo fa parte della Chiesa, e ad ognuno è affidato il Vangelo da vivere e da annunciare, secondo il proprio carisma e il proprio ministero.
La Chiesa è unica, e nell'unica Chiesa ci sono fratelli chiamati a costruire comunità, altri a conservare il deposito della fede, altri a manifestare in coppia l'amore che Cristo ha per la Chiesa, altri a vivere la continenza per il Regno. Ma ad ognuno, lo ripeto, è affidato l'annuncio.
I nostri paesi di tradizione cristiana rischiano di sedersi sugli allori, di confondere la cultura cristiana con l'appartenenza a Cristo. È bello che il nostro paese senta ancora una forte appartenenza ai valori cristiani (almeno a certi valori), ma questo non significa incontrare Dio.
Quant'è difficile, fratelli, annunciare Cristo ai cristiani! Sanno già tutto!
Ma chi deve annunciare la speranza del Vangelo all'ottanta per cento dei battezzati che non celebra la presenza del Risorto ogni settimana? Chi deve consolare, scuotere, incoraggiare, ascoltare i tantissimi che credono di credere? Io, tu, fratello che leggi, noi tutti! Senza distinzione.
Questa è la sfida che ci aspetta: far uscire Dio dalle chiese, riportarlo là dove aveva deciso di vivere, tra la gente. Strapparlo dagli angusti abiti del sacro in cui l'abbiamo relegato, per farlo tornare in quella umanità che aveva deciso di assumere. Gesù ci indica con precisione lo stile e la modalità di questo annuncio, lo stile da assumere.
I discepoli sono mandati a due a due, precedendo il Signore.
Non dobbiamo convertire nessuno: è Dio che converte, è lui che abita i cuori. A noi, il compito di preparargli soltanto la strada. In coppia veniamo mandati: l'annuncio non è atteggiamento carismatico del singolo, di qualche guru, ma dimensione di una comunità che si costruisce, che fatica nello stare insieme. L'annuncio è fecondato dalla preghiera: perché non diventare silenziosi operatori di bene, seminando benedizioni e preghiere segrete là dove lavoriamo? Affidando invece al Signore il compito di giudicare?
Il Signore ci chiede di andare senza troppi mezzi, usando gli strumenti sempre e solo come strumenti, andando all'essenziale. Il Signore ci chiede di portare la pace, di essere persone tolleranti, pacificate. Nessuno può portare Dio con la supponenza e la forza, l'arroganza dell'annuncio ci allontana da Dio in maniera definitiva.
Infine il Signore ci chiede di restare, di dimorare, di condividere con autenticità. Noi non siamo diversi, non siamo a parte: la fatica, l'ansia, i dubbi, le gioie e le speranze dei nostri fratelli sono proprio le nostre, esattamente le nostre.
È faticoso e crocifiggente, lo sappiamo bene. Lo sa anche Paolo che, pur convertendo il bacino del Mediterraneo, sente tutto il limite del suo carattere. Ma, come Isaia, siamo chiamati a incoraggiare gli esiliati di ritorno da Babilonia, a volare alto, a sognare in grande, a costruire il sogno di Dio che è la Chiesa.
E pazienza per i risultati che mancano: è un'epoca di profezia, la nostra. Smettiamola di restare impantanati nella routine, superiamo le paure del mondo, non valutiamo i risultati come un'azienda del sacro: e gioiamo fratelli cari, perché i nostri nomi saranno scritti nei cieli: e Dio ha già colmato i nostri cuori, affidandoci il Regno. Amen!