giovedì 22 ottobre 2009

25 Ottobre 2009 - XXX Domenica del Tempo Ordinario

Anche l’uomo distratto e superficiale percepisce la bellezza del cielo stellato, del giardino fiorito, della distesa del mare, del picco roccioso. L’ammirazione e l’apprezzamento estetico non bastano. Occorre andare oltre per approdare all’origine di tutto. Vi si arriva con gli occhi limpidi, quelli del cuore, capaci di penetrare il dato esteriore. Tali occhi sono aperti solo dalla bontà misericordiosa di Gesù che ci conduce al “mistero”: Egli è pronto ad aprire anche i nostri occhi se, come Bartimeo, siamo capaci di gridare a Lui; «Figlio di Davide, Gesù, abbi pietà di me»! E il grido non rimane inascoltato. Gesù non delude mai una persona in ricerca, non tradisce un amore che sa pagare di persona, non dimentica una fedeltà a tutta prova. Il problema del cieco diventa il suo problema, il suo isolamento lo tocca da vicino a tal punto che interviene per superarlo. E la storia si ripete all’infinito. Gesù non è mai sordo ai nostri problemi, anche se i suoi tempi non sono necessariamente i nostri, e le sue modalità spesso diverse dalle nostre aspettative.
È Gesù Cristo che chiama tutti, anche i deboli, gli zoppi, i ciechi al grande ritorno e li colma di consolazione e di gioia.
Si tratta della nostra conversione, alla quale siamo chiamati continuamente.. Essa è un ritorno: si tratta di fare a ritroso il cammino percorso nell’allontanarci da Dio. È la liberazione da una schiavitù umiliante, la riscoperta di una gioia, prima dimenticata: quella di sentirci circondati dalle braccia amorose del Padre che ci accoglie di nuovo nel suo amore.
Incomincia con una manifestazione di Gesù nella vita dell'uomo: è necessario che Cristo passi di là. Ma questa manifestazione è misteriosa: il cieco che rappresenta l'uomo sulla via della fede, non vede Gesù; intuisce soltanto la presenza del Signore negli avvenimenti, ma esprime già la sua fede rimettendosi alla iniziativa salvifica di Dio. Questa apertura a Dio è subito contestata dal mondo che lo circonda ed è necessario tutto il coraggio per mantenere il proposito di apertura all'uomo-Dio. Il candidato alla fede si sente così oggetto della attenzione di alcuni che gli rivelano la chiamata di Dio, lo incoraggiano e lo invitano a convertirsi.
Allora si intreccia il dialogo finale: «Che vuoi?...». Si tratta dell'impegno definitivo, presentato sotto forma di domanda e di risposta, per mettere bene in risalto la libertà totale delle due parti che contraggono l'alleanza.
Infine, la vista è restituita al cieco come una visione della fede che lo impegna immediatamente a “seguire Cristo «per la strada”.
Seguire la chiamata di Dio ha sempre voluto dire lasciare qualcosa dietro di sé, andare verso l'ignoto (Abramo), rinnegare la logica della carne e delle sicurezze umane per affidarsi totalmente al Dio delle promesse. Questo diventa più difficile oggi. Se nel passato la fede poteva costituire una spiegazione o una interpretazione dell'universo, un luogo di sicurezza di fronte alle assurdità della storia e al mistero del mondo, oggi non è più così.
In un mondo come il nostro non c'è più posto per una fede anonima, formalistica, ereditaria.
È necessaria una fede fondata sull'approfondimento della Parola di Dio, sulla scelta e sulle convinzioni personali. Una fede consapevolmente abbracciata e non passivamente ricevuta in eredità. Tutto questo comporta un nuovo modo di affrontare il problema della nostra Iniziazione Cristiana, un nuovo modo di considerare la vita cristiana e i Sacramenti.
Il cristiano deve percorrere (o meglio ripercorrere) non tanto un cammino fatto di tappe e di gesti sacramentali, quanto piuttosto un itinerario di fede, un “catecumenato restaurato”, senza del quale non hanno senso né efficacia i gesti sacramentali donati a scadenze fisse.
Il cammino di Gesù verso Gerusalemme sta per terminare: Gerico è l’ultima tappa e qui la guarigione di un cieco offre nel racconto di Marco il grande insegnamento del discepolato. “Poter vedere” è la domanda giusta da rivolgere al Maestro: questa volta Egli l’approva e l’esaudisce. È il discepolo stesso, un mendicante cieco, che ha bisogno di guarigione per poter vedere come Gesù, per poter seguire Gesù sulla sua strada.
C’è qualcosa che accomuna noi, cristiani intiepiditi, con il cieco del vangelo che torna a vivere. Qualcosa che anima i nostri passi mentre cerchiamo di riprendere il cammino al seguito di Gesù. È la fede.
È Dio che ci ha raggiunti, lo abbiamo riconosciuto nel suo continuo svelarsi e nei segni tangibili della nostra vita al buio; e ora, corroborati interiormente dalla sua presenza, sappiamo che Dio è con noi nonostante il possibile, apparente silenzio che anima i nostri giorni. Gridiamo, allora, al Signore: gridiamo dal profondo del nostro cuore, perché anche noi vogliamo riacquistare la vista per poterlo riconoscere nei fratelli e un giorno vederlo come Egli è, e irrobustire la nostra fede nel Dio fedele che ci chiama alla salvezza.
Come per il cieco nato, così per ciascuno di noi, la fede domanda sempre di essere professata, celebrata, vissuta. In particolare, il “viverla” è il modo più forte per “professarla”, oltre che il modo più genuino per “celebrarla”. Il cristiano, diventato “figlio della luce” grazie al dono battesimale della fede, è chiamato a comportarsi come tale. Solo così non smentisce la sua identità! Se la fede definisce l’essere stesso del credente, non può non esprimersi e non attuarsi nella vita quotidiana, nelle scelte e nelle azioni dell’esistenza.
I “figli della luce” sono veramente tali quando compiono le “opere della luce”, ossia imitano e condividono gli atteggiamenti e lo stile di vita di Gesù.

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