giovedì 29 ottobre 2009

1 Novembre 2009 - Solennità di Tutti i Santi

Il vangelo di oggi ci propone le beatitudini. Le beatitudini sono il messaggio di Gesù, il suo manifesto, il suo libro di testo, e ci mostrano un’immagine di Dio e un’immagine dell’uomo.
Ci dicono, cioè, chi è Dio e chi è l’uomo per Gesù.
La legge mosaica dei dieci comandamenti diceva cosa bisognava fare e cosa non bisognava fare. Gesù adesso sale sul monte delle Beatitudini e dà le otto beatitudini, otto consigli.
Questa è la nuova e definitiva legge di Dio per tutta l’umanità. Una legge che non dice cosa bisogna fare o non fare, ma come bisogna essere.
Le beatitudini dicono: “Tu puoi essere felice. Tu lo puoi, tutti lo possono”.
Il punto è che non è come comprare un auto o un gioiello: do qualcosa (soldi) e mi viene dato ciò che cerco. Qui non c’è niente da dare, qui c’è da darsi; qui non c’è niente da giocare (punto e spero di vincere!) ma da giocarsi; qui non c’è da fare o non fare qualcosa, ma da essere e vivere qualcosa”.
Le beatitudini ci mostrano cosa possiamo essere. Dappertutto si sentono voci che dicono: “Accontentati, d’altronde non si può avere tutto. Sii soddisfatto di quello che hai: lascia stare certi sogni”.
E, invece, le beatitudini dicono: “Punta in alto, osa, vola ad alta quota perché per questo sei fatto. Questo è ciò che Dio vuole da te e questa è la tua unica felicità. Non hai nemmeno idea di cosa puoi vivere! Non hai nemmeno idea di come puoi sentirti pieno! Non hai nemmeno idea di quanto grande sia il tuo cuore: c’è davvero spazio per tutti; di quanto tu possa amare, di quale profondità tu possa avere nei rapporti; di quanti sentimenti tu possa sentire, percepire e vivere. Non hai nemmeno idea di quanto ti possa sentire ricco (anche se hai ben poco) e ricolmo di vita. Non hai nemmeno idea di quanto possa essere bello, meraviglioso e immenso vivere. Non hai nemmeno idea di che forza hai dentro e di quale coraggio disponi”.
E il fatto che molte persone si mettano a ridere di fronte a tutto questo, dimostra quanto, in definitiva, l’uomo sia infelice.
Le beatitudini non insegnano a non avere contrasti, conflitti, perché non si può vivere senza tutto questo. Non insegnano ad evitare i conflitti ma ad entrarci; non insegnano a sottrarsi al dolore ma ad esprimerlo; non insegnano a fuggire di fronte alla paura ma a guardarla in faccia; non insegnano ad evitare i sentimenti (tutti!) ma a viverli.
Non sono una soluzione magica (ci piacerebbe eh!) ma un invito a non aver paura, a fidarci di Dio che ci dice: “Ci sono io” e di noi: “Tu puoi vivere più intensamente di quanto non creda”.
È un’illusione pensare di poter vivere senza difficoltà, conflitti, tensioni o incomprensioni. Poiché ci sentiamo caratterialmente fragili, poiché non ci sentiamo così forti da reggere tutti questi urti, questi scossoni, queste tensioni, allora vorremmo evitarli, allora sogniamo un mondo senza difficoltà. Le beatitudini, invece, ci insegnano a vivere in maniera felice, profonda, con le radici ben piantate, anche quando le situazioni sono difficili, crude o dolorose. E dicono: “Vivile e non ti sottrarre perché anche ciò che tu tendi a rifiutare ha un senso; vivile perché tutto è per te e devi imparare qualcosa da tutto ciò che ti succede; vivile e non ti far spaventare perché Dio c’è sempre e non ti abbandona mai. Vivile e vedrai che è così!”.
La paura bussò alla mia porta. Ero terrorizzato. Andai ad aprire e... non c’era nessuno!
Le beatitudini non inneggiano alla povertà, alla miseria, alla rassegnazione, al pietismo, alla tristezza o al subire.
Non dicono che la povertà è bene: la povertà è miseria. La povertà non è bene, ma è la realtà della nostra condizione umana.
Non dicono che è buono essere perseguitati: no, è terribile e crudele. E chi lo cerca è masochista (ammalato!). Ma non si può vivere, essere significativi e pensare che tutti ci accettino. Anche le statue, immobili e senza vita, sono soggette a pareri diversi; perfino sulle idee ci si scontra, figuriamoci se possiamo accontentare tutti!
Non dicono che piangere sia bello: no, è e sarà sempre doloroso. È che piangere ci trasforma, ci purifica. Il pianto è il modo naturale di esprimere i nostri dolori, le nostre tristezze, i nostri lutti e le nostre perdite. È l’adattamento alla realtà. Non è bello, è necessario (che è molto diverso).
Non dicono che bisogna chiudere gli occhi o subire le malefatte degli uomini. Dicono che bisogna essere misericordiosi, che bisogna avere un cuore grande che giudica le azioni e non gli uomini, i comportamenti ma non le persone. Dicono che gli uomini agiscono così perché sono pieni di paura. È per questo che divengono aggressivi, violenti, indisponenti. Questo non vuol dire che devo subire tutto. Quando c’è da dire “no” lo dico e con tutta la forza che ho. Ma dentro di me guardo anche la persona ostile e mi dico: “Poverino, ma quanto deve soffrire! Che guerra avrà dentro?” E non giudico, perché non conosco le sue tensioni interne.
Le beatitudini non sono dei comandi: “Devi vivere così”.
Sono delle proposte: “Tu puoi vivere così!”. È una possibilità: puoi sceglierla oppure no. Vedi tu. Le beatitudini non sono una soluzione ai nostri problemi: “Cosa devo fare per essere un bravo cristiano?”. Sono un cammino per diventarlo.
1. Puoi essere quello che sei.
La cultura dice: “Puoi vivere solo se ti adatti e non disturbi”.
Dio dice: “Ti ho creato così, va bene così”.
Molti di noi, per non avere problemi, per non creare tensioni, per non perdere chi amiamo, accontentiamo tutti (cosa impossibile ma noi ci proviamo!) e così facendo ci allontaniamo così tanto da noi che ad un certo punto ci perdiamo, non sappiamo più chi siamo, cosa vogliamo, cosa sia bene per noi. Alcune persone si sono così tanto allontanate da sé stesse da non sapere neppure più cosa provano, cosa vogliono.
Non adattarti a morire; non adattarti a certe situazioni che ti alienano, che ti fanno male; non farti andare bene quello che non ti può andare bene solo per la paura del contrasto; non metterti mai un vestito che non è tuo o vivere una vita che non è tua.
Sii te stesso perché essere qualcos’altro è l’unico fallimento dell’esistenza. Vivi la tua vita perché viverne un’altra non ti potrà mai far felice.
2. Puoi vivere anche se non hai successo.
La società dice: “No, puoi vivere solo se hai profitto, successo o se sei bravo”.
Dio dice: “A me non devi dimostrare niente”.
Molte persone lavorano sempre e di più. Non sono mai capaci di stare ferme, sono sempre in movimento. Tutta questa attività viene giustificata come agire, attivismo spirituale, amore per il prossimo, per la casa, per gli altri, per i figli.
Ma spesso, sotto sotto, c’è dell’altro. Nel profondo credono di non valere, credono di non essere davvero degne d’amore, credono di non essere poi così importanti, e allora tentano di guadagnarselo, di meritarselo, di “comprarselo”.
È come se dicessero: “Con tutto quello che faccio per mio figlio, sarò pure una brava madre, no?”. Ma non è quello che fai che ti fa una brava madre. È ciò che hai dentro che ti fa madre. “Con tutto quello che faccio per gli altri vuoi che Dio non mi ami”. No, Dio non ti ama perché fai tanto. Dio ti ama perché sei tu. E tutto il tuo daffare non ti rende certo più bello o gradito ai suoi occhi: anzi così facendo perdi il tuo tempo, la tua possibilità di essere quello che veramente sei.
Non dobbiamo pensare che tutto (l’amore, la stima, l’affetto) si possa comprare: “Io sono bravo e tu in cambio mi dai attenzioni”. Non dobbiamo diventare “disponibili con gli altri” perché abbiamo un bisogno tremendo di essere visti, accolti e amati.
Le beatitudini dicono: “Dio non te lo devi conquistare. È già tuo”. “L’amore non te lo devi comprare; hai già il Suo”. E che pace, che distensione è sapere che c’è un amore sicuro al di là di ogni cosa!
3. Puoi esprimere ciò che senti.
La cultura dice. “No, non esprimere i tuoi sentimenti e soprattutto alcuni nascondili”.
Dio dice: “Ciò che senti è tuo, ti appartiene, sei tu. Non mentirti, ma accogliti, accetta ciò che vive in te”.
Molte persone hanno imparato che non è bene farsi vedere deboli, che chi è forte non piange mai. Così per essere forti hanno eliminato il pianto. Ma non sono forti, sono rigidi (il che è molto diverso!).
Cioè: il pianto è la reazione spontanea a qualcosa che ci ha rattristati, che ci ha feriti, che ci ha provocato dolore. Smettere di piangere non ci fa meno tristi, ci impedisce solo di esprimerlo: e così facendo ci teniamo dentro la tensione e il dolore che, invece, hanno bisogno di uscire; ci nascondiamo la verità: crediamo che tutto vada bene (non piangiamo!) e invece dentro il dolore urla.
Molte persone credono che arrabbiarsi sia male. “Non essere arrabbiato con i tuoi fratelli; il bravo cristiano non s’arrabbia mai”. E, invece, è normale arrabbiarsi, è normale andare in collera, è normale, a volte, essere furenti e pieni d’ira. Ogni volta che siamo feriti, viene ferita la nostra dignità: è naturale quindi che noi, giustamente, reagiamo, che ci arrabbiamo.
L’importante è che questa reazione non rimanga “dentro”, non deve “bollire” dentro di noi (ecco il ri-sentimento): è necessario che un chiarimento, una spiegazione pacata riporti la serenità.
Quando sono arrabbiato devo accettare di esserlo, vuol dire che c’è un motivo per cui lo sono. Magari ho ingigantito un fatto, l’ho interpretato con occhio permaloso, ma la mia rabbia ha comunque motivo d’esserci, e ne devo prendere atto. Solo così posso iniziare a gestirla e a buttarla fuori, senza sfogarmi con parole acide, taglienti, giudicanti.
Molte persone hanno imparato che non si deve avere paura e, così dicono loro, non hanno paura di nulla: ma la realtà è che non la sentono. Aver paura è normale nella vita: l’importante è non farsi bloccare, non aver paura di aver paura.
La paura è solo un avvertimento: “Qui c’è qualcosa di pericoloso”. Bene: quando lo sai, hai il tempo di decidere cosa fare. Non devo nascondere la paura dietro ad un volto lieto o ad una espressione sorridente. Non devo resistere alla paura con tutte le mie forze, ignorarne l’esistenza e cercare di dominarla con una volontà ferrea. La paura mi appartiene. Mi dice che ciò che sto facendo mi costa, mi mette in gioco, è qualcosa d’importante, ma devo sapere che io non sono solo e – con l’aiuto di Dio – posso vincere qualunque paura!.
Altre persone invece hanno paura di tutto: si vergognano da morire per come hanno vissuto o per ciò che provano. Ma le beatitudini dicono che Dio ha un cuore così grande da poter contenere ogni cosa, che Lui non ha paura di ciò che a noi invece fa paura o ci fa sentire in colpa; che la nostra dignità (siamo figli di Dio e della Vita) rimane intatta, qualunque cosa abbiamo fatto.
Allora non mi devo nascondere più nulla, perché Lui è Accoglienza, perché Lui non prova vergogna delle mie “vergogne”, perché Lui ama anche ciò che io non riesco ad amare.
E se non ho assolutamente nulla da nascondere ai suoi occhi, allora veramente sono libero e liberato.
4. La povertà è la nostra unica e reale condizione.
La prima beatitudine (forse Gesù ha pronunciato solo questa o solo le prime tre) le racchiude tutte. Il povero del vangelo è colui che è vuoto, rannicchiato, mendicante, bisognoso.
Il peccato, allora, per Gesù è bastare a se stessi, credere di essere a posto, di non aver più bisogno di imparare nulla, di sapere più o meno tutto, di non aver bisogno degli altri e di Dio.
“Povero” qui significa distaccato, nel senso di chi vive dentro le cose, totalmente immerso in esse, ma senza attaccarsi ad esse: vive “distaccato”, perché sa che quando è ora deve lasciare tutto; nudo è nato e nudo uscirà da questa vita.
La povertà, l’essere nulla (che è diverso dall’essere niente) è la vocazione dell’uomo. La realtà è che io non possiedo nulla. Essere umani è vivere questa verità. Questo è il grande segreto della vita: chi non ha niente ha tutto. Chi non si attacca a nulla può vivere tutto.
La prima beatitudine ci rivela infatti la grande verità della vita: Dio è tutto, il resto è niente. Dove ti appoggi? Su cosa puoi davvero con-fidare? Sulle cose? Passano tutte e si usurano. Sulla gloria? Rimane forse un nome ma tu non ci sei più. Sulle persone? Non ti salvano. Qual è l’unica cosa che tiene? Qual è l’unica cosa dove ci si può appoggiare, agganciare, per non cadere nel vuoto?
Noi siamo zero. Ma nella lingua ebraica “zerà” oltre che significare il nostro “zero” “niente” vuol dire anche “seme”. Noi siamo zero, nulla, vuoti, poveri del tutto, mendicanti. Ma nel nostro essere niente, come in un seme, è nascosto il nostro essere tutto.
Nel nostro essere niente c’è il Tutto. Nel nostro essere poveri c’è la Ricchezza. E più io mi spoglio e smetto di con-fidare in me e più posso ri-mettermi nelle mani di Dio ed essere al sicuro.
Quando non avrai più nulla, allora avrai il Tutto. E quando sarai spoglio di ogni cosa, allora sarai vestito d’eternità. E quando tutto morirà, allora sarà la Vita. E quando tutto cadrà, allora sarà l’inizio.
Sì, perché Dio è l’unica fortezza incrollabile.

giovedì 22 ottobre 2009

25 Ottobre 2009 - XXX Domenica del Tempo Ordinario

Anche l’uomo distratto e superficiale percepisce la bellezza del cielo stellato, del giardino fiorito, della distesa del mare, del picco roccioso. L’ammirazione e l’apprezzamento estetico non bastano. Occorre andare oltre per approdare all’origine di tutto. Vi si arriva con gli occhi limpidi, quelli del cuore, capaci di penetrare il dato esteriore. Tali occhi sono aperti solo dalla bontà misericordiosa di Gesù che ci conduce al “mistero”: Egli è pronto ad aprire anche i nostri occhi se, come Bartimeo, siamo capaci di gridare a Lui; «Figlio di Davide, Gesù, abbi pietà di me»! E il grido non rimane inascoltato. Gesù non delude mai una persona in ricerca, non tradisce un amore che sa pagare di persona, non dimentica una fedeltà a tutta prova. Il problema del cieco diventa il suo problema, il suo isolamento lo tocca da vicino a tal punto che interviene per superarlo. E la storia si ripete all’infinito. Gesù non è mai sordo ai nostri problemi, anche se i suoi tempi non sono necessariamente i nostri, e le sue modalità spesso diverse dalle nostre aspettative.
È Gesù Cristo che chiama tutti, anche i deboli, gli zoppi, i ciechi al grande ritorno e li colma di consolazione e di gioia.
Si tratta della nostra conversione, alla quale siamo chiamati continuamente.. Essa è un ritorno: si tratta di fare a ritroso il cammino percorso nell’allontanarci da Dio. È la liberazione da una schiavitù umiliante, la riscoperta di una gioia, prima dimenticata: quella di sentirci circondati dalle braccia amorose del Padre che ci accoglie di nuovo nel suo amore.
Incomincia con una manifestazione di Gesù nella vita dell'uomo: è necessario che Cristo passi di là. Ma questa manifestazione è misteriosa: il cieco che rappresenta l'uomo sulla via della fede, non vede Gesù; intuisce soltanto la presenza del Signore negli avvenimenti, ma esprime già la sua fede rimettendosi alla iniziativa salvifica di Dio. Questa apertura a Dio è subito contestata dal mondo che lo circonda ed è necessario tutto il coraggio per mantenere il proposito di apertura all'uomo-Dio. Il candidato alla fede si sente così oggetto della attenzione di alcuni che gli rivelano la chiamata di Dio, lo incoraggiano e lo invitano a convertirsi.
Allora si intreccia il dialogo finale: «Che vuoi?...». Si tratta dell'impegno definitivo, presentato sotto forma di domanda e di risposta, per mettere bene in risalto la libertà totale delle due parti che contraggono l'alleanza.
Infine, la vista è restituita al cieco come una visione della fede che lo impegna immediatamente a “seguire Cristo «per la strada”.
Seguire la chiamata di Dio ha sempre voluto dire lasciare qualcosa dietro di sé, andare verso l'ignoto (Abramo), rinnegare la logica della carne e delle sicurezze umane per affidarsi totalmente al Dio delle promesse. Questo diventa più difficile oggi. Se nel passato la fede poteva costituire una spiegazione o una interpretazione dell'universo, un luogo di sicurezza di fronte alle assurdità della storia e al mistero del mondo, oggi non è più così.
In un mondo come il nostro non c'è più posto per una fede anonima, formalistica, ereditaria.
È necessaria una fede fondata sull'approfondimento della Parola di Dio, sulla scelta e sulle convinzioni personali. Una fede consapevolmente abbracciata e non passivamente ricevuta in eredità. Tutto questo comporta un nuovo modo di affrontare il problema della nostra Iniziazione Cristiana, un nuovo modo di considerare la vita cristiana e i Sacramenti.
Il cristiano deve percorrere (o meglio ripercorrere) non tanto un cammino fatto di tappe e di gesti sacramentali, quanto piuttosto un itinerario di fede, un “catecumenato restaurato”, senza del quale non hanno senso né efficacia i gesti sacramentali donati a scadenze fisse.
Il cammino di Gesù verso Gerusalemme sta per terminare: Gerico è l’ultima tappa e qui la guarigione di un cieco offre nel racconto di Marco il grande insegnamento del discepolato. “Poter vedere” è la domanda giusta da rivolgere al Maestro: questa volta Egli l’approva e l’esaudisce. È il discepolo stesso, un mendicante cieco, che ha bisogno di guarigione per poter vedere come Gesù, per poter seguire Gesù sulla sua strada.
C’è qualcosa che accomuna noi, cristiani intiepiditi, con il cieco del vangelo che torna a vivere. Qualcosa che anima i nostri passi mentre cerchiamo di riprendere il cammino al seguito di Gesù. È la fede.
È Dio che ci ha raggiunti, lo abbiamo riconosciuto nel suo continuo svelarsi e nei segni tangibili della nostra vita al buio; e ora, corroborati interiormente dalla sua presenza, sappiamo che Dio è con noi nonostante il possibile, apparente silenzio che anima i nostri giorni. Gridiamo, allora, al Signore: gridiamo dal profondo del nostro cuore, perché anche noi vogliamo riacquistare la vista per poterlo riconoscere nei fratelli e un giorno vederlo come Egli è, e irrobustire la nostra fede nel Dio fedele che ci chiama alla salvezza.
Come per il cieco nato, così per ciascuno di noi, la fede domanda sempre di essere professata, celebrata, vissuta. In particolare, il “viverla” è il modo più forte per “professarla”, oltre che il modo più genuino per “celebrarla”. Il cristiano, diventato “figlio della luce” grazie al dono battesimale della fede, è chiamato a comportarsi come tale. Solo così non smentisce la sua identità! Se la fede definisce l’essere stesso del credente, non può non esprimersi e non attuarsi nella vita quotidiana, nelle scelte e nelle azioni dell’esistenza.
I “figli della luce” sono veramente tali quando compiono le “opere della luce”, ossia imitano e condividono gli atteggiamenti e lo stile di vita di Gesù.

giovedì 15 ottobre 2009

18 Ottobre 2009 - XXIX Domenica del Tempo Ordinario

Nel Vangelo di oggi Giacomo e Giovanni, i due fratelli, figli di Zebedeo, chiedono a Gesù di sedere uno alla destra e uno alla sinistra del suo trono, naturalmente intendono quando finalmente sarà inaugurato il suo Regno, il Regno di Dio di cui tante volte Gesù aveva parlato.
Gesù risponde loro: Voi non sapete ciò che domandate. Il destino di Gesù sarebbe stato diverso da come i due pescatori diventati discepoli del Maestro di Nazareth, se lo immaginavano, e sarebbe stata diversa anche la costituzione della sua Chiesa, forma storica del Regno di Dio. Gesù andava incontro alla sua passione; egli lo sapeva e lo aveva anche preannunciato ai suoi apostoli. A quanto pare però essi, gli apostoli, non se ne rendevano conto e ragionavano in termini ancora troppo umani, secondo un orizzonte legato agli interessi di questo mondo.
E questo non basta, perché gli altri dieci apostoli essendosi accorti della manovra dei primi due fratelli si sdegnano della richiesta, si lamentano e sicuramente incominciano anche a rimproverare i due baldanzosi per la loro iniziativa.
Gesù prende l'occasione per istruire il gruppo dei dodici sul tema del potere e dell'autorità, nel mondo e dentro la Chiesa.
Coloro che sono ritenuti capi, dominano. Potremmo dire che in tanti concorrono, ma uno su mille ce la fa', perché il capo può essere uno solo. Da sempre il potere si basa sul consenso, ma questo può essere più o meno estorto e chi sta sopra comanda, mentre chi sta sotto obbedisce. Fra di voi però dice Gesù, riferendosi al nuovo popolo di Dio che sarà la Chiesa, non è così. La Chiesa dunque è, e dovrebbe essere il luogo, dove si vince il vizio della superbia, cioè dell'eccellenza ad ogni costo.
Il santo curato d'Ars diceva "Noi mettiamo la superbia dappertutto, come il sale.".
"È chiamato superbo chi vuol sembrare più di quello che è; superbo infatti è chi vuol andare al di sopra". Più precisamente la superbia è il desiderio di una grandezza sregolata.
"Chi vuol essere grande tra voi si farà vostro servitore, e chi vuol essere il primo tra voi sarà il servo di tutti." così dice Gesù nel Vangelo e così è giusto che sia.
Gesù non condanna il desiderio di essere grandi, ma ai suoi apostoli insegna la via per arrivare alla vera grandezza che è quella dell'umiltà e del servizio, ossia Gesù ci dice che ci deve essere un collegamento fra quello che uno dà e quello che pretende.
Come negli affari se uno è capace verrà riconosciuto e si andrà in cerca di lui, così nel mondo spirituale se uno sa dare ad un certo punto riceverà la sua ricompensa morale senza bisogno di rivendicarla o di attribuirsela falsamente.
Tutti abbiamo l'ambizione di essere considerati e ci fa male quando i nostri meriti non vengono riconosciuti e non veniamo stimati per come ci aspetteremo. Ci ribelliamo istintivamente contro le umiliazioni e le sentiamo come delle ingiustizie, e questo va bene, ma può accadere che abbiamo anche la presunzione di superare gli altri, desiderando prestigio e onori.
Ci sono tanti modi per essere superbi: c'è una superbia è cieca, quando si pensa di essere quel che non si è, allora uno è presuntuoso; c'è una superbia è vana, quando ci si vanta di una considerazione presso gli altri che non esiste, quella allora è la vanagloria o vanteria; c'è una superbia cieca e vana insieme, quando, non avendo alcuna buona qualità, ci si vanta ugualmente e si ambisce ad aver fama presso gli altri e quella allora è megalomania.
La richiesta dei due apostoli di oggi dimostra una certa presunzione: pensano di poter bere lo stesso calice di Gesù senza immaginare quanto difficile sarebbe stato per loro sostenere la prova della passione del Signore. La presunzione dei due apostoli veniva da una certa ambizione, ma più che altro dalla loro ignoranza, che sarebbe stata tolta nei giorni della Pasqua.
I potenti di questo mondo invece secondo Gesù cercano la vanagloria: basta loro essere considerati grandi e non esserlo veramente. Invece la persona umile invece è consapevole di propri limiti e spera da Dio la realizzazione delle proprie aspirazioni.
"Ha rovesciato i potenti dai troni ed ha innalzato gli umili", dice Maria nel Magnificat.
"Dio resiste ai superbi, ma dà grazia agli umili." Conferma san Pietro nella sua prima lettera: "Umiliatevi dunque sotto la potente mano di Dio, perché vi esalti al tempo opportuno, gettando in lui ogni vostra preoccupazione, perché egli ha cura di voi."
"Che cosa mai possiedi che tu non abbia ricevuto? E se l'hai ricevuto, perché te ne vanti come non l'avessi ricevuto?" chiede san Paolo ai cristiani di Corinto.
E poco prima li aveva esortati: "Non vogliate perciò giudicare nulla prima del tempo, finché venga il Signore. Egli metterà in luce i segreti delle tenebre e manifesterà le intenzioni dei cuori; allora ciascuno avrà la sua lode da Dio."
E sempre ai Corinti scrive: "Chi si vanta si vanti nel Signore."
La superbia è per l'uomo che non deve chiedere mai. Ora che tipo di uomo sia questo della pubblicità faccio fatica a immaginarmelo. L'uomo che non deve chiedere mai prende senza chiedere, offende e fa torto senza domandare scusa, ottiene quello che vuole minacciando e non richiedendo per favore. Insomma sarebbe un maleducato, senza rispetto e senza riguardi. Dice il proverbio che quanto più le persone sono vuote, tanto più sono piene di sé.
"Sarete come Dio" dice il diavolo tentatore ad Adamo ed Eva nel giardino di Eden e così per superbia, ossia per volere essere superiori al comando di Dio, entrambi persero il paradiso terrestre e dovettero fare i conti con la propria miseria.
Questa tentazione è ricorrente nella storia dell'umanità. Con la scoperta della bomba atomica l'uomo ha rubato a Dio il segreto del sole, ma è stato un progresso o è stato un peggioramento della società? Potremmo dire tutte e due le cose. L'energia atomica può essere usata per fini pacifici, seppure con mille cautele, oppure può essere impiegata per la costruzione di micidiali bombe. Per altro gli uomini hanno imparato a conoscere l'energia atomica propria in questa forma violenta e solo in seguito se ne è sviluppato un uso civile.
Dobbiamo essere orgogliosi di quello che abbiamo fatto finora in questo campo o è meglio essere prudenti? Ognuno può rispondere da sé.
Per conto mio dico che tutto quello che è fuori della sottomissione alla legge di Dio non si può che ritorcere contro il suo inventore. Il primo che ha detto: "Non servirò" e si è ribellato contro l'ordine messo da Dio nell'ambito spirituale è il demonio stesso. Egli non vuole servire a Dio e cerca in tutte le maniera che gli uomini servano a lui. La superbia ha questo di rovinoso, che mentre tutti i vizi rifuggono da Dio, solo la superbia si contrappone a Dio.
Il rimedio ce lo dice Gesù stesso nel Vangelo di oggi: "Il Figlio dell'uomo infatti non è venuto per essere servito, ma per servire e dare la propria vita in riscatto per molti». Egli ci ha dato l'esempio: l'eccellenza va conquistata con l'umiltà e con la dedizione amorevole. Gesù con tutta la sua vita ci dimostra che non si può servire il prossimo se non si vuole servire Dio.
Concludo con la preghiera del Salmista (Salmo 19) "Le inavvertenze chi le discerne? Assolvimi dalle colpe che non vedo. Anche dall'orgoglio salva il tuo servo perché su di me non abbia potere; allora sarò irreprensibile, sarò puro dal grande peccato."

venerdì 9 ottobre 2009

11 Ottobre 2009 - XXVIII Domenica del Tempo Ordinario

Il fine dell'uomo è la beatitudine e i beni materiali non sono che strumenti per il raggiungimento di questo fine ultimo che è il solo degno dell'uomo. Se uno deve viaggiare è meglio per lui recarsi alla stazione e prendere il treno, piuttosto che fare collezione di trenini giocattolo. Così se la felicità sta in una relazione felice con il prossimo e con Dio, si fa torto al prossimo a Dio e anche a se stessi, se si antepone ad una relazione positiva con queste, che sono persone, un affetto esagerato e morboso per le cose materiali e per il loro possesso.
Attaccarsi alle cose materiali è proprio delle personalità e delle civiltà in declino che hanno perso la fiducia nel futuro, vedono presentarsi all'orizzonte delle minacce e cercano di premurarsi in qualche maniera. Cercare di arricchire unicamente davanti agli uomini e non davanti a Dio è un comportamento sbagliato condannato dal Vangelo:: "Stolto," dice Gesù nella parabola dell'uomo ricco "questa notte stessa ti sarà richiesta la tua vita. E quello che hai preparato di chi sarà?" E termina: "Così è di chi accumula tesori per sé, e non arricchisce davanti a Dio". La bontà dell'uomo nei riguardi delle ricchezze consiste in una certa misura: e cioè consiste nel desiderare il possesso delle cose in quanto sono necessarie alla vita, secondo le condizioni di ciascuno. Nell'eccedere questa misura si ha un peccato: e cioè nel volerne acquistare, o ritenere più del dovuto. Dove sta dunque la malvagità dell'avarizia? Saremmo tentati di rispondere: negli altri: in chi ha di più e non si accontenta mai di dove è arrivato e sarebbe disposto a fare carte false pur di incrementare il suo capitale. Questa risposta però rivela un vizio diverso e si chiama invidia. Per considerare equamente la lusinga del vizio dell'avarizia occorre un certo distacco e anche una certa sincerità con noi stessi. L'avarizia è un peccato spirituale: coinvolge chi ha troppo, come anche chi ha poco. Sarebbe sbagliato considerare l'avarizia un peccato sensibile; quando uno mangia troppo, o beve troppo, ossia commette un peccato di gola, poi sta male fisicamente; invece quando uno accumula o trattiene per sé di regola non ne va di mezzo la sua salute, semmai quella degli altri. L'avaro nell'oggetto materiale non cerca un piacere fisico, ma dell'anima: cioè il piacere di possedere la ricchezza. E qui è difficile dire che ci sia qualcuno esente da questo rischio. La felicità è il pieno compimento di ogni desiderio e il denaro sembra assicurare questa felicità in quanto sembra che attraverso di esso si possa ottenere tutto. Più precisamente l'avarizia ci fa vedere il danaro come garanzia per ottenere qualsiasi cosa; a questa considerazione sembra dare ragione anche il libro del Qohelet quando dice che "tutto ubbidisce al danaro". In realtà esistono dei beni non commerciabili e sono anche i più importanti: ossia la salute e la salubrità dell'aria, l'amicizia, la pace del mondo, la serenità della coscienza e la gioia di vivere. Come il corpo non è tutto dell'uomo, ma esiste anche l'anima, così il denaro non è tutto nella società, ma esistono anche le relazioni umane. Alle tante offese a cui queste relazioni umane sono sottoposte a motivo del commercio che si fa anche dei sentimenti e della dignità personale i cristiani rispondono con la generosità che non è lo spreco o la dissipazione, ma è il farsi carico dell'indigenza del prossimo e delle necessità della comunità. Lo scrigno degli avari è simile all'inferno: se c'entrano i denari, non ne escono in eterno. Il paradiso invece è condivisione, mantenendo certo sempre la propria dignità, ma senza far pesare il dono che si fa all'altro. Lo scrittore francese Balzac alla notizia della morte di uno zio ricco e avaro, dal quale ereditò, scrisse: «Alle cinque antimeridiane mio zio e io siamo passati a miglior vita». Non aspettiamo dopo morti a fare del bene, ma facciamo subito in modo che vada a vantaggio nostro oltreché degli altri, a cui non potremo impedire di impadronirsi delle nostre cose quando non ci saremo più. Alla povertà mancano molte cose, all'avarizia tutte, ma il rimedio a questa situazione non è lontano, basta un po' di buon senso e di generosità. San Paolo a Timoteo scrive: "L'attaccamento al denaro infatti è la radice di tutti i mali; per il suo sfrenato desiderio alcuni hanno deviato dalla fede e si sono da se stessi tormentati con molti dolori." Evitiamo per quanto possibile fin da ora questi mali, non è difficile, forse sarà alleggerita la tasca, ma se l'offerta è fatta bene sarà alleggerita anche l'anima. Termino con una considerazione del filosofo romano Seneca: "Gli uomini, nella loro stupida avarizia, distinguono il possesso e la proprietà e non giudicano propri i beni pubblici; ma il saggio invece giudica suo soprattutto quello che possiede in comune con l'umanità intera."

giovedì 1 ottobre 2009

4 Ottobre 2009 - XXVII Domenica del Tempo Ordinario

La Parola di Dio oggi ci mette di fronte ad un tema caldo e faticoso, che mette in difficoltà me che rifletto e voi che ascoltate. Parliamo del fallimento dell’amore di coppia, il più doloroso e sanguinante, il più drammatico e diffuso, tema appesantito dalla posizione ufficiale della Chiesa nei confronti delle persone divorziate e risposate o conviventi, posizione che pochi, anche fra i discepoli, capiscono e che i fratelli e le sorelle che portano sulla propria pelle le stigmate del fallimento coniugale sperimentano come una immensa ingiustizia e un giudizio sulla loro vita, versando sale sulle loro ferite. Invoco lo Spirito e balbetto qualcosa, allora, lasciando che sia la Parola a parlare. Al tempo di Gesù il divorzio era un fatto consolidato, addirittura attribuito a Mosè, quindi intangibile. Come accade ancora oggi nella cultura islamica, però, era un divorzio maschilista: solo l’uomo, stancatosi della moglie, poteva rimandarla a casa con un libello di ripudio. Nessuno avrebbe mai osato mettere in discussione una norma così favorevole ai maschi: la domanda che viene posta a Gesù è retorica, tutti si aspettano che, ovviamente, Gesù benedica questa norma. O forse no: la domanda viene posta proprio come un tranello, per far diventare Gesù improvvisamente antipatico alle folla che lo ha così presto elevato al rango di profeta. (Sai che novità! Tutti seguiamo il guru di turno, finché questi non ci dice qualcosa di sgradevole…). La risposta di Gesù è una rasoiata: voi fate così, ma Dio non la pensa così, Dio crede nell’amore come unico, crede nella possibilità di vivere insieme ad una persona per tutta la vita. Senza sopportarsi, senza sentirsi in gabbia, senza massacrarsi: l’obiettivo della vita di coppia non è vivere insieme per sempre, ma amarsi per sempre! Silenzio imbarazzato, sguardi sorridenti e complici: “Ma che, scherziamo?”. Gli apostoli, preso da parte Gesù, insistono: “Non parlavi sul serio, vero?”. Matteo, nel brano parallelo, giunge ad annotare la sconsolata affermazione dei dodici: “Allora è meglio non sposarsi!” (19,10) Che forza! Gesù dice che è possibile amarsi per tutta la vita, che Dio l’ha pensata così l’avventura del matrimonio, che davvero la fedeltà ad un sogno non è utopia adolescenziale ma benedizione di Dio! Quando due giovani decidono di sposarsi e parliamo della fedeltà non stiamo disquisendo di una norma anacronistica di una struttura reazionaria che propone un modello superato: stiamo parlando del sogno di Dio. A partire da qui, con fatica, con tenacia, i discepoli hanno scoperto la ricchezza del matrimonio cristiano. Da prima di Cristo ci si incontra e ci si innamora, si vive insieme e si hanno dei figli. Farlo nel Signore, mettere Gesù nel mezzo, fa comprendere delle cose straordinarie, nuove, sconcertanti su di sé e sulla coppia. In questi anni, frequentando molte coppie, pregando e vivendo con loro, abbiamo scoperto e riassunto la novità del matrimonio nel Signore. Fra voi, amici lettori, alcuni avrebbero desiderato tanto fare questa esperienza e non ci sono riusciti: non erano pronti, hanno compiuto un gesto a cuor leggero, hanno trovato una persona migliore del proprio coniuge… Molti vivono sulla propria pelle il dramma di una separazione che porta sempre con sé molto dolore. Come possiamo fare? Dobbiamo capire, cercare, intuire. Da una parte abbiamo la Parola del Signore Gesù, cristallina e forte. Dall’altra la prima regola del cristianesimo: l’accoglienza e l’amore. Questo incrocio difficile porta con sé alcune conseguenze. La prima è la richiesta di distinguere sempre le varie situazioni: altro è chi abbandona il proprio coniuge colpevolmente, altro chi è abbandonato; altro chi è libero e sposa una persona separata o chi proviene da un matrimonio fallito; altro chi vuole condividere un cammino di discepolato e chi si ricorda di essere cattolico solo quando gli viene chiesto di fare il padrino e allora tira fuori la questione del “diritto a…”. La seconda è l’affermazione perentoria che una coppia separata e risposata è parte della comunità, partecipa alla vita della comunità, porta il suo contributo a partire dal proprio vissuto. Dio non si stanca mai, egli è fedele e tutta la storia di Israele ci dice che Dio non abbandona mai il suo popolo, anche quando questi è infedele all’alleanza. Come segno di questo percorso doloroso la Chiesa chiede ai coniugi risposati di non ricevere la comunione; è un segno forte, indubbiamente, e anche discutibile, ma che non vuole essere “punitivo”. I fratelli separati non sono esclusi dalla comunione perché non “degni” (siamo tutti “indegni” di ricevere Dio, è lui che vuole donarsi!), ma per segnalare alla comunità il loro percorso di conversione. La terza è che dobbiamo ancora capire come fare: occorre ribadire fortemente il valore dell’indissolubilità, senza schiacciare le persone che hanno sbagliato o che fanno scelte di vita in cui sono coinvolte persone separate. La strada, come vedete, è ancora piuttosto lunga e necessitiamo di tutta l’infanzia di Dio per trovare delle soluzioni...