domenica 29 giugno 2008

29 giugno 2008 - Solennità dei SS. Pietro e Paolo

In quel tempo, Gesù, giunto nella regione di Cesarèa di Filippo, do­mandò ai suoi discepo­li: «La gente, chi dice che sia il Figlio dell’uo­mo?» . Risposero: «Alcu­ni dicono Giovanni il Battista, altri Elìa, altri Geremìa o qualcuno dei profeti». Disse loro: «Ma voi, chi dite che io sia?». Rispose Simon Pietro: «Tu sei il Cristo, il Figlio del Dio vivente». E Gesù gli disse: «Beato sei tu, Simone, figlio di Giona, perché né carne né san­gue te lo hanno rivelato, ma il Padre mio che è nei cieli. E io a te dico: tu sei Pietro e su questa pietra edificherò la mia Chiesa e le potenze de­gli in­feri non prevarranno su di essa. A te darò le chiavi del regno dei cieli: tutto ciò che legherai sulla terra sarà legato nei cieli, e tutto ciò che scioglierai sulla terra sarà sciolto nei cieli».
La gente, chi dice che sia il Figlio dell’uomo? La risposta è bella e insieme sbagliata: Dicono che sei un profeta, una creatura di fuoco e di luce, come Elia; una creatura di forza e di vento, come il Battista; profeta, voce di Dio e suo respiro. Ma voi, chi dite che io sia? Gesù è la domanda dentro le nostre risposte facili, è domanda che risveglia, che fa vivere. Dio crea la fede attraverso domande. Ma voi… La domanda è preceduta da una contrapposizione: Ma voi, voi invece, che cosa dite? Voi che mi seguite da anni, voi che mi avete visto sorridere, piangere, respirare, moltiplicare il pane... Come se i Dodici fossero di un altro mondo; come se non dovessero mai omologarsi al sistema. A nome di ogni credente, Cristina Campo testimonia: Ci sono due mondi: io sono dell’altro. Pietro risponde: Tu sei il Cristo, il Figlio del Dio vivente. E Gesù: Su questa pietra edificherò la mia Chiesa. Pietro è roccia per la Chiesa, e per l’uomo, nella misura in cui ripete che Dio si è donato in Cristo, che Cristo, crocifisso, è vivente, che tutti siamo figli nel Figlio. Questa è la fede- roccia, il primato di Pietro che costruisce la Chiesa. Come Pietro, modello del credente, anch’io sono chiamato a diventare roccia e chiave: roccia che dà appoggio, sicurezza, stabilità al fratello che mi è affidato; chiave che apre le porte belle di Dio, di un Regno dove la vita fiorisca. Come Pietro anch’io chiamato a legare e a sciogliere, a creare cioè nella mia storia strutture di riconciliazione, di prossimità. Ma tu, chi dici che io sia? Io capisco di Cristo solo ciò che vivo di Cristo. La vita non sta in ciò che dico della vita, ma in ciò che vivo della vita. Cristo non è uno che devo capire, ma uno che mi attrae; non uno che interpreto, ma uno che mi afferra. La croce non ci fu data per capirla, ma per aggrapparci ad essa. « Capire » Gesù, definirlo, può essere anche facile, ma « com­prenderlo » nel senso originario di prendere per me, afferrare, stringere, possedere il suo segreto, è possibile solo se la sua vita mi ha « afferrato » . Corro perché conquistato, dice Paolo. Corro perché preso, vinto, prigioniero, sedotto da Cristo. La nostra vita non avanza per decreti, ma per una passione. Non per colpi di volontà, ma per attrazione. Io sono cristiano per divina seduzione: io, prigioniero di Cristo ( Ef 4,1), afferrato da Lui, corro per afferrarlo. ( Letture: Atti degli Apo­stoli 12,1- 11; Salmo 33; 2 Timoteo 4,6- 8.17- 18; Matteo 16,13- 19). (Ermes Ronchi, Avvenire, 26 giugno 2008)

venerdì 20 giugno 2008

22 Giugno 2008 - XII Domenica del Tempo Ordinario

La persecuzione
Il popolo di Dio ha sperimentato, durante tutta la sua storia, la violenta opposizione dei popoli vicini. Il mistero della persecuzione, pur essendo connesso al mistero della sofferenza in genere, ne è distinto. La sofferenza costituisce un tormentoso problema, perché tocca tutti gli uomini anche i giusti e gli innocenti. La persecuzione colpisce i giusti proprio perché giusti; raggiunge specialmente i profeti a causa del loro amore a Dio e della loro fedeltà alla sua parola. Geremia occupa fra i perseguitati un posto speciale: egli ha espresso meglio degli altri lo stretto legame che esiste tra la persecuzione e la missione profetica.Una figura profetica: il Servo sofferenteIl Servo sofferente compie il piano di Dio con l’accettazione dei maltrattamenti che il popolo gli infligge. La ragione profonda che spiega il dramma del giusto perseguitato è messa in luce dal libro della Sapienza: il giusto è diventato per l’empio «insopportabile solo al vederlo» (Sap 2,14); è «di imbarazzo» (Sap 2,12), un testimone del Dio vivente che si preferisce misconoscere.Condannando Gesù al supplizio della croce, gli Ebrei continuano l’ingiustizia dei loro antenati che hanno perseguitato i profeti, e così tentano di opporsi al piano di Dio. Ma il calcolo dell’uomo peccatore si rivela sbagliato. I «principi di questo mondo», crocifiggendo il «Signore della gloria», diventano, in realtà, gli strumenti della Sapienza divina (1 Cor 2,8), perché la morte di Cristo diventa salvezza del mondo e gloria di Dio.La persecuzione: una beatitudineNell’insegnamento di Gesù, la persecuzione diventa oggetto di beatitudine: «Beati voi quando vi insulteranno, vi perseguiteranno...» (Mt 5,11). Essa è inevitabile: «Un servo non è più grande del suo padrone. Se hanno perseguitato me, perseguiteranno anche voi». Impegnarsi a vivere seguendo la via di Dio significa incontrare nel proprio cammino difficoltà sempre nuove e sempre più grandi.In un mondo che è dominato dall’egoismo e dalla ricerca del proprio interesse, chi predica l’amore, là povertà e il perdono sarà inevitabilmente perseguitato, perché il peccato è profondamente radicato nel cuore dell’uomo. Ma il perseguitato non teme. Egli ha fiducia nel Signore. I persecutori possono uccidere solo il corpo, ma non hanno il potere di mandare in rovina l’anima.Il cristiano affronta la persecuzione con gioia: gli apostoli «se ne andarono dal sinedrio lieti di essere stati oltraggiati per amore del nome di Gesù» (At 5,41); e san Paolo: «Sono pervaso di gioia in ogni nostra tribolazione» (2 Cor 7,4).Vera e falsa persecuzioneIl Concilio ha chiesto alla Chiesa di cambiare il suo atteggiamento nei confronti del mondo: essa non è più la roccaforte isolata, ma il lievito che vuole animare e permeare con il vangelo la massa. Non dobbiamo pensare che questa riconciliazione sia facile e che dopo di essa gli uomini possano con facilità tendersi la mano. Nella misura in cui alcuni metteranno veramente in pratica le beatitudini evangeliche, per una autentica promozione umana, costoro conosceranno la persecuzione. L’opposizione tra la sapienza del mondo e la sapienza di Cristo è inevitabile e irriducibile.Non tutte le volte, però, che la Chiesa sperimenta la persecuzione, è per la sua fedeltà al vangelo e per l’imitazione di Cristo sulla via della croce; qualche volta è stata perseguitata e osteggiata perché in ritardo sulla storia, per pigrizia o per mancanza di fiducia o di coraggio. E’ doloroso costatare come idee cristiane ed evangeliche quali: libertà, uguaglianza, diritti della persona, democrazia, abbiano trovato in alcuni settori della Chiesa resistenze, sospetti e talora anche opposizione. Talvolta la ostilità contro la Chiesa è nata da un amore deluso verso di essa. I limiti umani della Chiesa cioè dei cristiani, le connivenze inconsapevoli, forse, ma reali con situazioni di ingiustizia e di potere, le paure e le esitazioni, i silenzi, la mancanza di coraggio... le hanno fatto rivoltare contro persino uomini onesti e di buona volontà.In più di un caso le persecuzioni contro la Chiesa trovano la loro origine in una concezione errata della religione che sembra conculcare la libertà e l’autonomia dell’uomo.Ma c’è infine anche una persecuzione che possiamo chiamare « satanica ». E’ il lievito nero del mondo che si diffonde e ramifica come un cancro che corrode i tessuti dell’umanità; è come un corpo mistico del male, col quale, nonostante ogni gesto di buona volontà, la Chiesa non può entrare in dialogo, perché si tratta del nemico irriducibile, dell’avversario che lotta contro Cristo e il suo regno. E questo, nonostante tanto scetticismo, è un male che esiste ed è molto attivo.

martedì 10 giugno 2008

15 giugno 2008 - XI Domenica del Tempo Ordinario

Pecore senza pastore
Levi il pubblicano è rinato, ora è diventato Matteo apostolo, ha visto nello sguardo del Nazareno, ospite di Pietro e Andrea, la possibilità di una vita diversa, libera, nuova. La misericordia lo ha convertito, solo la misericordia che ha visto in fondo allo sguardo sereno del Rabbì Gesù lo ha cambiato.
Trent'anni sono passati da quell'incontro, e Matteo ancora indugia nello scrivere, rotto a tratti dall'emozione che serra la gola. La misericordia era il tesoro nascosto nel campo che Levi, infine, ha trovato.
Non è stato il solo a fare questa esperienza: ci racconta che Gesù aveva lo stesso identico sguardo su ogni uomo, sulla folla intera. L'amore che Dio provava per l'umanità era struggente e incontenibile.
Gesù vede nel profondo le persone che gli stanno di fronte, sa dell'infinito bisogno di felicità che ci troviamo piantato nel cuore e della fatica che facciamo a dare una risposta all'inquietudine che offusca il nostro sguardo. Venderemmo l'anima per essere amati, daremmo un braccio per conoscere - infine - cosa davvero può colmare durevolmente il nostro bisogno di pace.
Questa ricerca appassionata di felicità è ciò che ci fa simili, ciò che unisce ogni uomo, in ogni tempo. Gesù vede che siamo sbandati, come pecore senza pastore, perché non abbiamo in noi stessi la risposta a tutte le domande.
Peggio: in questo delirante e fragile tempo in cui siamo chiamati a vivere, la felicità ce la si vende a caro prezzo e noi, spaesati, finiamo col seguire l'idea più seducente, più luccicante, che sembra appagare quel bisogno profondo di bene e di vero che alberga nel nostro cuore.
Gesù si commuove perché ci vede faticare più del dovuto nello sbrogliare la matassa della felicità. Forse anche Dio ha dei ripensamenti.
Non era questo il suo progetto quando ci aveva donato la libertà dono difficile da gestire, superiore alle nostre forze, che volentieri cediamo all'incantatore di turno.
Pecore senza pastore: così ci vede il Maestro, commuovendosi.
Nel suo amore infinito Gesù decide di agire.
Al solito ci spiazza: la pagina finisce nel modo più inatteso e incredibile.
Tutti ci aspetteremmo: Gesù si commuove e quindi si propone come un Buon pastore.
Macché: Gesù si commuove e inventa la Chiesa.
Lo so, lo so, la stragrande maggioranza di voi ha un'esperienza di Chiesa povera e contraddittoria, si è scontrato duramente col volto incoerente e severo di qualche cattolico più devoto di Dio.
Gesù pensa ad una compagnia, ad una ricerca comune, ad un sogno realizzato: uomini e donne, suoi discepoli, capaci, insieme, di cercare senso e pienezza, misura e gioia.
Lui è il Pastore che ci guida a pascoli erbosi, ma insieme possiamo fare esperienza di gregge, di comunità.
Non è facile capire e amare la Chiesa. troppe le fragilità, troppe le contro-testimonianze, troppe le persone che si dicono credenti e che vivono senza neppure essere uomini, troppe le incoerenze, troppi gli errori nella storia per non essere dubbiosi quando si parla di Chiesa.
Gesù sceglie dodici persone per iniziare a costruire il Regno, dodici che stiano con lui, per diventare poi capaci di condurre ai pascoli erbosi nei quali loro per primi saranno condotti.
Nessuno si sognerebbe di mettere insieme dodici persone così radicalmente diverse per realizzare un progetto! Pescatori abituati alla concretezza e alla rudezza insieme ad intellettuali come Matteo e Giovanni; tradizionalisti come Giacomo insieme a pubblicani, peccatori pubblici, terroristi come Simone del gruppo degli Zeloti, disposti ad uccidere l'invasore romano. C'è l'intero Israele in questo gruppo, l'intera umanità nella sua vivace diversità. La Chiesa è la comunità dei discepoli di Gesù, diversi tra loro in tutto se non nell'amore del Maestro, chiamati ad annunciare il vangelo con semplicità e verità.
Questa è, nel sogno di Dio, la Chiesa.
Paradosso di Dio! All'umanità ferita e fragile che necessita di una guida, Gesù propone un pezzo di umanità, altrettanto fragile e ferita, trasfigurata dall'Amore.
La missione dei dodici è sconcertante: rivolgersi alle pecore perdute di Israele.
Un invito attuale e urgente: la Chiesa ha bisogno di testimoni che la riconducano all'ovile del Padre. I primi destinatari dell'annuncio del Vangelo siamo proprio noi cristiani. Troppo cattolici per diventare discepoli, troppo convinti di saperne abbastanza per ascoltare il Vangelo, troppo riempiti di cristianesimo socio-culturale per credere – sul serio! – che la Chiesa abbia a che fare con Dio, siamo proprio noi cristiani del terzo millennio, nelle nostre società che riconoscono un campanile e ignorano le parabole, che apprezzano gli oratori e ignorano l'interiorità, che celebrano le feste dimenticando il festeggiato, siamo noi i chiamati a ricevere – ancora e ancora – la buona notizia di un Dio che si fa vicino.

giovedì 5 giugno 2008

8 giugno 2008 - X Domenica del Tempo Ordinario

Non sono venuto a chiamare i giusti, ma i peccatori
Ci sono alcune categorie di persone nel Vangelo verso le quali sembra che Gesù abbia una vera allergia, una istintiva incompatibilità di carattere: sono coloro che si ritengono “giusti”.
Di fronte a loro Gesù si sente disarmato e quasi inutile. Non può entrare in dialogo con loro, perché si sentono “a posto”, non hanno bisogno di salvezza né di perdono. Sono persone aride, incapaci di andare al di là della giustizia; la loro religione è quella del “io do, perché tu mi dia”. Gesù ha dipinto il loro atteggiamento nella parabola degli operai della vigna (Mt 20,1-16) che si lamentano della generosità del padrone verso gli ultimi arrivati. Nella parabola del figlio prodigo essi rivestono i panni del figlio maggiore geloso della bontà del padre verso il figlio che ritorna a casa (Lc 15,11-32). Il loro ritratto è quello del fariseo che “paga” a Dio anche la più piccola tassa, ma disprezza cordialmente e giudica dall’alto della sua “giustizia” il pubblicano che invoca misericordia (Lc 18,9-14).
A una religione ridotta alla giustizia dell’uomo, Gesù oppone una religione fondata sulla misericordia divina (Vangelo). Citando Osea (Prima Lettura) egli ricorda che i profeti hanno già ricusato il valore dei riti, anche se perfettamente eseguiti, e l’osservanza meticolosa ma esteriore della Legge, a favore di una religione di amore e di misericordia. Le simpatie di Gesù vanno, invece, verso i peccatori, i disprezzati, gli “scomunicati” del suo tempo, coloro che le persone perbene non osavano nemmeno frequentare per non contaminarsi. Lo accusano come amico dei pubblicani e delle peccatrici. Ma Gesù risponde loro dicendo che pubblicani e prostitute li precederanno nel regno dei cieli e frequenta le loro case incurante delle reazioni scandalizzate che suscita nei benpensanti. Prendendo parte alla stessa mensa con i peccatori, Gesù non solo si pone accanto a loro, ma comincia a realizzare quello che prometteva: «Molti verranno dall’oriente e dall’occidente e siederanno a mensa con Abramo, Isacco e Giacobbe nel regno dei cieli, mentre i figli del regno saranno cacciati fuori nelle tenebre» (Mt 8,11-12).
Ogni volta che nel vangelo il Cristo prende la figura dei “Radunatore”, rivolge la sua convocazione specialmente alle categorie scartate dalle assemblee ebraiche. «Esci subito per le piazze e per le vie della città e conduci qui poveri, storpi, ciechi e zoppi..., perché la mia casa si riempia» (Lc 14,21.23). L’assemblea ebraica escludeva queste persone: «Il cieco e lo zoppo non entreranno nella casa» (2Sam 5,8), come escludeva i pubblicani e i peccatori. Questi sembrano essere, invece, gli invitati privilegiati di Gesù, perché egli è Gesù, il “Salvatore”.
Questo aprirsi di Cristo a tutta l’umanità peccatrice nel desiderio di portare tutti alla salvezza, incontra resistenza e suscita scandalo anche oggi. Esiste, infatti, anche oggi una tendenza a rinchiudersi in piccole oasi di fervore religioso, a considerare o a desiderare una Chiesa fatta di “puri”, di persone scelte, impegnate, pie. “devote”…
Attenzione: il segno della propria fede non si realizza appartandosi, o dividendo gli uomini in “giusti” e “ingiusti”, in “buoni” e “cattivi”, in “vicini” e “lontani”, in “osservanti convinti” e “tiepidi”. Senza dire, poi, che molte volte il termine di paragone e di confronto per stabilire queste divisioni è soltanto la pratica esteriore, l’appartenenza sociologica, cioè, l’identificazione della vita di fede con il culto, la pratica, l’osservanza. Questo atteggiamento risente di una certa mentalità farisaica, che Gesù ha rifiutato.
La parola di Cristo è efficace e raggiunge l’uomo lì dove vive: per Gesù non ci sono esclusioni, tutti sono chiamati ad accogliere il Vangelo e chi l’annuncia, e ad abbandonare il passato dando ospitalità a Cristo nella propria vita fino alla comunione con i fratelli.
Si, perché la chiesa è comunione, carità, condivisione totale tra tutti.
È questa misericordia, questo amore, questa unione, che rende vero ed efficace il sacrificio, l’Eucaristia.
La misericordia, l’amore, va ben oltre le prescrizioni, ed è ciò che sta a cuore a Dio.
A noi, testimoni del comportamento di Cristo, non resta che imitarlo. Siamo, quindi, invitati a fare nostra la coppia dei verbi “andate e imparate”, cioè andare, fare, agire… Così facendo si impara l’insegnamento di Gesù, lo si capisce a fondo. D’altra parte mentre si agisce si capisce, mente si fa si impara. E questo si attua nell’Eucaristia: mentre si celebra il cuore è trasformato, la vita si apre al Cristo. L’Eucaristia è rivelazione del suo amore per tutti gli uomini. Tutti siamo chiamati a farci carico come lui dei dolori della gente per curarli nonostante la nostra debolezza e piccolezza. Cristo è il modello da seguire e la via per testimoniare oggi la sua misericordia. Per celebrare degnamente l’Eucaristia dobbiamo costantemente verificare il grado di ospitalità che ogni Comunità cristiana esercita nella “pacifica” convivenza tra peccatori e giusti, tra gruppi diversi e popoli diversi. Ogni esclusione è esclusione di Cristo, è lontananza da Lui, è incomprensione di «che cosa significhi misericordia io voglio e non sacrificio» (Vangelo).
Il periodo estivo è alle porte: se da un lato la fine delle attività e degli impegni importanti ci offre l’opportunità di uno “stacco” salutare dalla normale routine, dall’altro tuttavia essa non deve coincidere anche con il termine della frequenza alla Celebrazione Eucaristica domenicale; anzi, il periodo estivo dovrebbe costituire l’occasione per dedicare qualche tempo in più alla preghiera e alla riflessione personale. Per i giovani poi potrebbe anche essere l’occasione per fare qualche esperienza che li aiuti a comprendere la propria vita come una vocazione.
Matteo inserisce nel suo splendido racconto evangelico una vibrante pagina autobiografica. Racconta di quando, molti anni prima, ha conosciuto Rabbì Gesù. Lui, Matteo, faceva il pubblicano, cioè l'esattore delle tasse per conto dei romani: un collaborazionista e un ladro, abituato a fare la cresta sul denaro incassato. La sua giurisdizione era Cafarnao, sul lago di Tiberiade, grosso centro posto sulla strada che da Damasco porta al mare.
Matteo era ricco, molto ricco, spregiudicato e temuto. Odiato, certamente, com'è odiato chi ha fatto fortuna sulle tragedie altrui. E venduto, perché, si sa, il denaro non puzza, e occorreva rassegnarsi alla dominazione romana. Idolatra, per i farisei e i devoti, perché portava in tasca le monete dell'Impero, con il bel faccione dell'imperatore stampato sul conio.
Poi, un giorno, l'incontro con quell'ospite di Pietro e Andrea, i pescatori che gli fornivano due volte a settimana il pesce del lago. Lo aveva già visto altre volte, il Nazareno; sapeva che giocava a fare il mistico, il profeta, Ma lui, Matteo, non aveva tempo per occuparsi di religione.
Accadde, così, semplicemente come Matteo ce lo racconta. Il Nazareno si accostò, sorridendo, al banchetto delle tasse. Lo guardò con intensità. Matteo si aspettava un rimprovero, come spesso accadeva da parte dei devoti che andavano in sinagoga e che sputavano in terra quando lo incrociavano. Invece no. Gesù disse, semplicemente: vieni?
Matteo restò interdetto. Avrebbe voluto fargli mille domande. Non un suono gli uscì dalla gola. Semplicemente andò.
Matteo scrive questa pagina trent'anni dopo. Ci sta dicendo: ne è valsa la pena, non è stato il momento inebriante e fuggente dell'evento spettacolare, del ritiro o del pellegrinaggio, della giornata della gioventù o dell'esperienza di Taizè, esperienze travolgenti che devono poi passare al setaccio della quotidianità e della povertà delle comunità parrocchiali. Trent'anni sono una vita, e Matteo dice a noi suoi lettori: ho lasciato tutto: ricchezza, potere, progetti e ho seguito il folle Nazareno. Ne è valsa la pena, credetemi, è come se la festa che ho dato giunta la sera e a cui Gesù ha voluto partecipare, malgrado fossimo tutti dei rampanti professionisti della truffa, degli spregiudicati manager senza scrupoli, fosse continuata fino ad oggi.
Che tenerezza suscita Matteo! Sentiamo forte la sua emozione, intuiamo la forza rigeneratrice di questo incontro e ci fermiamo alle soglie del mistero dell'incontro fra Dio e l'uomo. Tutela della privacy. Quale argomento ha potuto convincere un uomo così radicato nel proprio delirio di onnipotenza a lasciare tutto per seguire un Maestro farneticante?
La misericordia, fratelli, la misericordia. Matteo ha incontrato in quello sguardo tutta la tenerezza che si era negato e che gli avevano negato, tutto il bene che non pensava possibile, tutto il rispetto di chi ti ama davvero, di chi oltrepassa i tuoi limiti, i tuoi peccati, le tue scelte spregevoli e vede in te ciò che tu non vedi più: il santo che potresti essere.
Gesù lo ama, senza giudicarlo, senza offenderlo, senza astio o rabbia o moralismo.
Lo ama con libertà e, amandolo, lo fa nuovo. Matteo diventerà ciò che Gesù ha pensato di lui, Matteo diventerà il santo che scopre di essere.
Matteo è sconvolto. Non sa dove lo condurrà questa avventura, non sa ancora cosa succederà; i suoi amici lo prendono in giro, non lo capiscono, ma brindano alla sua fortuna. Matteo segue il suo istinto: non ha mai trovato tanta gioia in un momento solo, tanto amore in un solo sguardo.
La misericordia ci converte, fratelli. Non il timore, non il giudizio, non la legge, non la devozione, non l'etica, non la ragione, non la volontà. La misericordia: l'esperienza del cuore di Dio che supera la nostra miseria, l'amore di Dio che mi aiuta a superare la mia e l'altrui fragilità.
Levi si è convertito perché, per la prima volta, si è sentito amato.
Per due volte, oggi, la Parola di Dio se la prende con un atteggiamento di fede esteriore: in Osea il Signore vuole amore e non sacrificio, conoscenza di Dio, non olocausti e, nello splendido brano del vangelo di Matteo, nuovamente Gesù se la prende contro chi giudica il suo atteggiamento spregiudicato, chiedendo ai farisei di avere più misericordia e di non giudicare con durezza la sua disponibilità ad accogliere i peccatori...
Esiste, dunque, un modo di essere discepoli (di fare i discepoli) basato sull'esteriorità e sul sacrificio, dice il Signore. Vero, ci sono infatti molti cristiani che si fermano al senso del dovere, che concepiscono la fede come una specie di tributo (noioso) dovuto alla divinità.
È sempre successo e sempre succederà, tutto avviene a causa della fragilità del cuore degli uomini, della nostra connaturale fatica alla conversione, alla chiusura del cuore che troppe volte avvelena ed inquina la vita. Ma, ammonisce la Scrittura, il Signore non ama l'esteriorità, ma neppure il sacrificio. Ovviamente il Signore intende il sacrificio come gesto cultuale, la preghiera, il rito, la cerimonia che non sia desiderio di incontro e di lode; possiamo - paradossalmente - andare a Messa tutte le domeniche della nostra vita senza mai incontrare la straordinaria bellezza e dolcezza di Dio... Ma "sacrificio" anche nel senso comune di sforzo, di dovere subìto con cristiana rassegnazione. Non è la terribile immagine di cristianesimo che molti si portano nel cuore? Una specie di doverosa ed inevitabile sofferenza da sopportare per meritarci il paradiso?
Macché, non dobbiamo "meritare" un bel niente, il Paradiso è gratis: Gesù è morto per renderci partecipi della sua gloria: l’unica cosa che dobbiamo fare è “accoglierlo”. Completamente!
Quando mai capiremo che Dio desidera solo essere ricambiato nell'amore straordinario che ci offre?
Che la logica del dovere sta stretta alla logica dell'amore? Certo, poi, nella concretezza dell'amore ci troviamo a compiere dei gesti che ci fanno morire a noi stessi, che diventano davvero sacri (sapevate che la parola “sacrificio” significa “sacrum facere”, rendere sacro”?) che rendono più vero e saldo il nostro amore. Ma in genere noi tutti abbiamo l'idea del sacrificio come uno sforzo sterile in nome di una qualche obbedienza di cui non sappiamo la finalità. Sia chiaro, fratelli, Dio vuole amore, non sacrificio.
Come Matteo anche noi siamo chiamati ad incrociare lo sguardo intenso e amorevole del Rabbì Gesù che non giudica, che guarisce, che chiama.
Allora, fratelli e sorelle che casualmente leggete queste righe, permettetemi di dirvi: quando finalmente vi lascerete raggiungere e amare dal Signore? Quando la smetterete di concepire la fede come una specie di tributo da pagare a Dio? No, fratelli: qui non si tratta di “tributi”, qui è di luce che si parla, di tenerezza e di serenità, di pace e di conversione.
Questo Dio che ci viene a stanare per offrirci amore, questo Dio che soffre come un amante ferito quando non viene ricambiato, è lì che ci aspetta. Tutti.
E allora lo ripeto: noi… per quanto tempo ancora fuggiremo l'unica cosa che davvero ci può rendere felici?