giovedì 6 marzo 2008

9 Marzo 2008 - V DOMENICA DI QUARESIMA

Io sono la risurrezione e la vita…
L’ultima opera del Messia è stata l’illuminazione del cieco: ci ha aperto gli occhi sulla realtà, mostrando la verità di Dio e dell’uomo. Ora ci dà la libertà davanti al nostro limite ultimo: la risurrezione di Lazzaro ci apre gli occhi sulla morte, ipoteca di tutta la vita. Guardare negli occhi la morte e scrutarne il mistero, è necessario per vivere. Altrimenti la nostra esistenza rimane una fuga, coatta e inutile, da ciò che sappiamo essere il sicuro punto d’arrivo.
L’uomo è l’unico animale cosciente di morire: sa di essere-per-la-morte. Per questo, di sua natura, è cultura. La cultura infatti è una «macchina di immortalità»; ogni nostro sapere e potere è finalizzato ad affrancarci dalla morte e avere più vita. E una macchina splendida e imponente. Ma anche assurda ed impotente: non potendo vincere, cerchiamo di rinviare e rimuovere, o, nel migliore dei casi, interpretare l’appuntamento ineluttabile. La morte comunque, finché viviamo, ci costringe al suo gioco e ci tiene sempre in scacco, che, presto o tardi, è matto. Salvarci da essa è il desiderio che detta ogni nostra mossa, ma sappiamo già in anticipo che sarà frustrato. Non siamo liberi di perseguire la nostra aspirazione: ci sentiamo incantati e dominati dal Fato, che vanifica ogni nostra opera. Restiamo in attesa che sia reciso il tenue filo che ci tiene sospesi nel vuoto, per ricadere nel nulla, noi e ogni nostra fatica. L’esistenza è una condanna. A pensarci bene, l’unica libertà che abbiamo è quella di chi deve essere giustiziato da un momento all’altro, con la tortura di non sapere quando.
Gesù ci salva non «dalla» morte. È impossibile: siamo mortali. Ci salva invece «nella» morte. Non ci toglie quel limite che ci è necessario per esistere, né la dignità di esserne coscienti; ci offre però di comprenderlo e viverlo in modo nuovo, divino. Ogni nostro limite, compreso l’ultimo, non è la negazione di noi stessi, ma luogo di relazione con gli altri e con l’Altro. Invece di chiuderci in difesa o in attacco, possiamo aprirci alla comunione e realizzarci a immagine di Dio, che è amore.
Gesù non ci offre una ricetta, menzognera, per salvarci dal comune destino; ci fa invece vedere come si può vivere l’amore fino a dare la vita. Questa, come il respiro, non possiamo possederla e trattenerla: morremmo subito. Siamo però liberi di spenderla nell’egoismo o investirla nell’amore, sapendo che «chi ama la sua vita la perde e chi odia la sua vita in questo mondo, la conserverà per la vita eterna» (12,25). Noi conosciamo una vita che è per la morte; Gesù ci rivela una morte che è per la vita.
Siamo all’ultimo dei «segni», che rivelano la gloria del Figlio di Dio. Dopo questo racconto seguirà la sua passione, che realizza il significato di tutta la sua azione: Gesù è il Figlio perché comunica la propria vita ai fratelli, e la comunica perché è il Figlio.
Gesù, come Lazzaro e ogni uomo, muore. Egli però ha il potere di offrire la vita e di riceverla di nuovo. Anzi proprio perché la offre, la riceve come Figlio uguale al Padre, datore di vita. Questo è il «comando» ricevuto dal Padre (10,18), che lo costituisce Figlio e lo rende nostro fratello.
Quest’ultimo segno richiama il primo: rivela la gloria del Figlio dell’uomo (vv. 4.40; cf. 2,11!), donata a ogni figlio d’uomo. E quella gloria che apparirà sulla croce:
la gloria dell’Unigenito dal Padre (1,14b), che dà, a chi lo accoglie, il potere di diventare figlio di Dio (1,12).
Gesù, dando la vita a Lazzaro, sarà condannato a morte (v. 53). Chi dona vita, riceve morte; ma, proprio ricevendo morte, dà vita. E il paradosso della croce, ormai all’orizzonte. Essa esprime l’apice sia del male che è nell’uomo, sia del bene che Dio gli vuole: manifesta la «sua gloria», amore senza limiti, che si fa carico di ogni nostro limite. Nel piano di Dio il nostro male è assunto come luogo in cui egli si rivela pienamente e ci salva.

Betania:
Ci si arriva uscendo da Gerusalemme, scendendo nell'avvallamento del Cedron per poi risalire sulla collina, attraverso i polverosi sentieri che solcano i poderi coltivati del Monte degli Ulivi.
Tre chilometri che Gesù percorre spesso per incontrare Lazzaro, Marta e Maria.
Betania, per chi ama Cristo, è un nome fortemente evocativo.
A Betania, dai suoi tre amici, Gesù si rifugiava quando, col cuore gonfio di tensione e d'incomprensione, lasciava la Gerusalemme che uccide i profeti per trovare un angolo di serenità. Betania svela il volto di un Dio che sente il bisogno di essere amato, che si disseta della fede della Samaritana, cercatrice di Dio. Betania è l'icona dell'amicizia tra Dio e l'uomo, Betania è il segno di un approccio diverso, nuovo, al volto di Dio.
E, proprio su Betania, si abbatte la tragedia: Lazzaro si ammala gravemente. Qualcuno si prende la briga di avvisare Gesù, di dirgli: "Il tuo amico è malato".
Gesù ora lo sa, ma non fa nulla, e Lazzaro muore. Che mistero l'apparente silenzio di Dio. Che assordante silenzio, quello di Dio. Gesù non guarisce Lazzaro, ma scende a vedere, si fa presente.

Il tumulto è grande, c'è molta gente intorno a Marta e Maria, le nostre amiche sono conosciute e stimate. Sapendo che arriva il Maestro, finalmente, Marta prima e poi Maria, escono di casa e gli vanno incontro: cercano una Parola, un gesto, uno sguardo. Lazzaro è morto, Gesù era lontano.
Succede anche nelle nostre povere vite: qualcuno muore, e Gesù è lontano.
Qualcosa muore (la fede, la speranza, la fiducia) e Gesù è lontano.
Le sorelle non disperano. Amano.
Non capiscono, non urlano, non inveiscono, né piegano la testa in una rassegnata disperazione. Attendono, fiduciose. Lazzaro è morto, il loro amato fratello è morto. Ma ora l'amico è qui.
Marta e Maria piangono, la folla lo spinge a vedere, Dio viene accompagnato a vedere quanta disperazione suscita la morte, quanto dolore suscita il dolore.
Gesù vede la disperazione di Maria e il dolore dei giudei e ne è turbato. Chiede di vedere Lazzaro e la risposta è: "Vieni e vedi".
"Vieni e vedi". È la stessa frase che egli aveva rivolto, tre anni prima, ai suoi primi due discepoli, Giovanni e Andrea, che gli avevano chiesto dove abitasse: "Venite e vedrete" (Gv 1,39).
I discepoli (e noi) erano invitati a mettersi in gioco, a partecipare: la fede è un "andare a vedere", un'esperienza di fuoco.
Ora è Gesù che si fa discepolo. Ora è lui che è chiamato ad andare a vedere.
A vedere quanto dolore suscita il dolore.
A vedere nel volto dei suoi amici più cari la disperazione che suscita in noi la morte.
E Dio piange. È come se Gesù, fino ad allora, non avesse ancora visto la casa del dolore, come se solo in quel momento Gesù prendesse consapevolezza della devastazione della morte.
Certo: Gesù aveva incontrato ammalati e aveva anche risuscitato dei morti, come la figlia di Giairo o il figlio unico della madre vedova. Ma erano degli sconosciuti.
Qui, ora, per la prima volta Dio vede il dolore che il dolore suscita nel cuore di persone che egli ama.
Dio impara il dolore, diventa discepolo. Divenendo uomo, lui che è l'assoluta perfezione, l'immensa totalità, impara la fragilità. Dio piange, fratelli.
Davanti a quel pianto possiamo, come la folla, lamentarci del fatto che, invece di piangere, poteva fare qualcosa prima. O restare stupiti di tanto amore.
Il cristianesimo, di fronte al dolore, si pone, impotente, davanti a questa sconcertante notizia: Dio condivide il dolore e, assumendolo, lo redime. Non lo evita, né per sé, né per noi.
Non so se preferisco un Dio che condivide il dolore con me o un Dio che mi eviti la sofferenza.
Come uno dei due ladri appesi alla croce, sento dentro di me la lacerazione di volere, da chi può tutto, che mi tolga dalla croce. Oppure, come l'altro ladro, non so se stupirmi di un Dio che soffre esattamente come me (Lc 23,39-43). Non lo so.
Forse, realisticamente, preferirei un Dio assoluto e onnipotente, che mi eviti la sofferenza, piuttosto che un Dio che muore per amore. Davanti a questo dolore inatteso, Gesù, l'amico, prende una
decisione: darà la sua vita perché Lazzaro torni alle sue amate sorelle.
Una vita per la vita: un episodio che avviene appena prima dell'ingresso di Gesù a Gerusalemme.
Questo miracolo eclatante sarà la goccia che farà traboccare il vaso, la valanga che si distacca e tutto travolge, portandolo a morire.
La tensione è alle stelle, i suoi nemici si aspettano un solo microscopico passo falso per denunciarlo.
Gesù lo sa (Tommaso glielo ha detto: andremo a morire!) e accetta lo scambio.
Lo stesso scambio che, da lì a qualche giorno, farà dall'altare della croce per ciascuno di noi.
Ora che Dio conosce il dolore che la morte suscita nei cuori di chi si ama, decide di donare la sua vita.
Anche a noi, l'amico Gesù, grida: "Tu e tu e tu… venite fuori!". E allora veniamo fuori, fratelli, dalla nostra tomba, dalle nostre tenebre, dalle nostre piccole sicurezze, veniamo fuori dai nostri pregiudizi, dai nostri schemi, dai nostri egoismi. Veniamo fuori dalle nostre oscurità, veniamo fuori da tutto ciò che di freddo e di buio abita in noi, e… lasciamoci rivivere.
Crediamo, finalmente, lasciamoci raggiungere, infine.

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